Chernobyl
di Giorgio Moscatelli
Grandi tubi metallici attraversavano la sala che conteneva il reattore numero 3. Un potente fruscio scendeva dall’alto: erano le turbine che spingevano l’acqua e il vapore all’interno del reattore per raffreddare le barre di controllo. Davanti a me un possente muro di cemento armato, decorato con le strisce interrotte dal simbolo del nucleare, avvisava del pericolo di contaminazione. Oltre quel diaframma c’erano i resti del famigerato reattore esploso il 26 aprile del 1986, poco dopo l’una del mattino. Quella barriera che mi divideva dal nucleo fuso sembrava insuperabile, ma in realtà tutti sapevamo che era una debole protezione posta a difesa della terribile forza che i resti del reattore emanavano.
Eravamo
nell’Aprile del 1996 ed erano passati dieci anni dalla terribile esplosione che
aveva generato il più grande disastro nucleare della storia. Ricorrenza che
dovevo documentare con le immagini per il Tg2 della Rai. Alle mie spalle
sentivo la presenza del reattore in funzione. Il pensiero di essere di fronte a
quel muro chiamato “Sarcofago”, molto più grande dei suoi predecessori egiziani
e che conteneva delle scorie nucleari ancora radioattive, mi dava una
sensazione di angoscia. Mi sentivo impotente; in quei momenti la considerazione
di quanto era accaduto e il timore che una tragedia potesse avvenire di nuovo
mi dava un grande sgomento. All’esterno, all’ingresso degli uffici della
centrale, c’era un pannello digitale che indicava la data attuale, l’orario e
le radiazioni attive in quel momento. Quei numeri ballavano una danza macabra
che invece di rassicurare inquietava chi entrava e usciva da quella porta.
Il Sarcofago del reattore
La
città di Prypiat, a 3 chilometri dalla centrale nucleare, era stata colpita in
pieno dalla nube tossica e il centro abitato era chiuso e controllato dai
militari. Superato lo sbarramento, grazie a un permesso, sono entrato in quella
città abbandonata; i palazzi popolari, un tempo abitazioni degli operai e dei
tecnici della centrale, portavano i segni del tempo e dell’incuria sulle loro
facciate; sulle strade e sui marciapiedi crescevano alberi e cespugli di ogni
genere. Di tanto in tanto qualche cane randagio, ormai gli unici abitanti del
centro urbano, ci tagliava la strada, fuggendo impaurito quando ci vedeva.
Nella piazza centrale un grande simbolo dell’U.R.S.S. con la falce e il
martello faceva mostra di sé. Sembrava di sentir cantare ancora
l’Internazionale Comunista e di vedere i bambini festanti in prima fila. Sotto
quel simbolo in dissoluzione si aprivano le porte di un teatro, all’interno
lunghe file di poltrone vuote e di colore rosso sbiadito erano ormai gli unici
spettatori di un improbabile spettacolo. Il palco, immerso nella semioscurità,
si mostrava nudo davanti a quella platea di fantasmi. All’esterno un’alta ruota
panoramica dominava su tutto; i cestelli che un tempo avevano trasportato verso
il cielo bambini e giovani allegri, erano scatole vuote e annoiate appese ai
cavi d’acciaio.
un quartiere di Prypiat oggi, con la celebre ruota panoramica abbandonata
L’evacuazione della città era cominciata alle 14,00 del 17 Aprile 1986, il giorno dopo l’esplosione nella centrale. Qualche ora prima un’autocolonna di 1200 autobus, scortati dai militari, era entrata nella città senza nessun preavviso: i megafoni e gli altoparlanti avevano avvisato la popolazione, composta di 43.000 persone, di avere due ore di tempo per portare via poche cose, il necessario per due, tre giorni, un po’ di cibo, i documenti e di salire a bordo degli autobus. Questa gente non ha mai più fatto ritorno nella sua città.
Nelle abitazioni, sotto uno spessore di polvere, c’erano i resti di un pranzo interrotto: piatti con avanzi di cibo, bottiglie di acqua semivuote e tovaglioli stropicciati accanto alle posate sporche erano a testimonianza di quella fuga avvenuta in poco tempo. Il pavimento era coperto da sudiciume e da altre posate cadute dalla tavola; tra la sporcizia erano evidenti delle impronte di animali, probabilmente cani alla ricerca di cibo. Nelle stanze, sui tavolini e in terra, erano sparsi giocattoli e quaderni. Su alcuni balconcini, i più protetti dal vento, erano ancora appesi i resti di quelli che erano stati un tempo panni lavati ad asciugare. Sembrava di essere in uno dei tanti film che raccontavano un paesaggio da Day After alla fine di una guerra nucleare. Ho lasciato l’Ucraina portando con me quelle immagini, sia quelle impresse dalla telecamera, sia quelle rimaste nella mia memoria. Le prime, una volta andate in onda nel telegiornale, sono state cancellate, le altre rimarranno nella mia mente per sempre.
Dopo quattro anni da questo viaggio ho scoperto di avere un linfoma “Non Hodgkin”, probabilmente contratto durante la permanenza a Chernobyl. Da quel momento sono entrato nel tunnel della Chemioterapia: seduto su una poltrona verde chiaro, una coperta di lana che mi copriva le gambe, sacche di plastica con i liquidi colorati che scendevano lungo i tubicini; a volte contavo le gocce che saltavano nei piccoli gocciolatoi di raccordo con la speranza di veder finire quel ritmo che sembrava una tortura cinese. Intorno a me altre poltrone, altre persone, altri tubicini, altri gocciolatoi e altre gocce che scendevano dalle sacche in un ritmo ripetitivo e monotono.
Ero entrato nel reparto d’infusione della chemioterapia dell’ospedale Policlinico di Roma, nel settore di ematologia gestito dal professor Mandelli, il massimo esperto di ematologia in quel periodo. Avevo scoperto di avere il linfoma da tre mesi e passavo le mie giornate a guardare il soffitto della mia casa a Roma pensando al mio funerale, a quanta gente sarebbe venuta e a chi non sarebbe venuto… Quando me ne rendevo conto, maledicevo quelle riflessioni e cercavo di guardare oltre ma era difficile. In quel periodo, un periodo bruttissimo della mia vita, ho conosciuto molte persone che mi hanno regalato affetto senza chiedere nulla in cambio e altre che, quando mi vedevano, cambiavano strada per fuggire la malattia o per timore di non sapere come affrontare il dolore. Poi, un bel giorno, un magnifico giorno, il professor Mandelli decretò la mia guarigione e la totale remissione del Linfoma: ero uscito dal tunnel buio e tetro percorso per un lungo anno.
Questo avvenne nel 2000. Da quel momento la mia vita è ricominciata a scorrere serena insieme alla mia famiglia che mi è stata sempre vicina, ma senza dimenticare la terribile esperienza di Chernobyl.