DALLA STAMPA LIBERALE ALLA STAMPA DI REGIME (parte seconda a) Comparazione della stampa durante il Governo fascista in concomitanza dell’omicidio Matteotti (1925) e dell’attentato ai danni di Mussolini ad opera di Arnaldo Zamboni (1926).

di Michele D’Ambrosio

Uno dei momenti principali dell’ascesa del Fascismo fu senza dubbio quello della marcia su Roma, storicamente considerata come il punto di inizio del Governo Mussolini. Tra il 1919 ed il 1921 i consensi al movimento mussoliniano crebbero a dismisura, si passò dai 17 mila sostenitori del 1919 ai 310 mila del 1921, le squadre fasciste iniziarono a costituirsi come un vero e proprio organismo militare risultando nel 1922 la maggior forza organizzata del Paese[1]. Vittorio Emanuele III, l’On. Giolitti e tutti i capi delle varie forze politiche presenti in Parlamento, nonostante tutto, restavano convinti del fatto di poter istituzionalizzare il Partito Fascista e il suo capo facendolo rientrare nella legalità. Questo tentativo, rivelatosi vano, voleva ricalcare le vicende accadute durante il Risorgimento con la figura di Garibaldi, anch’egli considerato un sovversivo[2]; questo tentativo emerge anche da una frase pronunciata da Giolitti, figura politica in cui il Re riponeva grande fiducia, in quei giorni:

“Il miglior sedativo per le smanie rivoluzionarie consiste in una poltrona ministeriale che trasforma un insorto in un burocrate”[3].

Lo stesso Facta, in un’intervista rilasciata il 17 ottobre 1922, riconobbe il fatto che, considerata la divergenza tra l’esiguo numero di seggi parlamentari e la crescente popolarità nella Nazione, il Partito Nazionale Fascista sarebbe stato da coinvolgere all’interno del Governo[4]. Dello stesso parere si trovava il Ministro dell’Interno Taddei, il quale fece dichiarare al suo portavoce che 

“il movimento fascista era fortissimo e che era necessario portarlo al più presto al potere”[5]

Il 20 luglio 1922, con la caduta del governo Facta, si aprì una delle crisi politiche più gravi e difficili dell’intera storia nazionale: da una parte il pericolo nero, dall’altra l’incapacità e la non volontà dei partiti di collaborare tra loro per una soluzione governativa efficace. Una delle prove più evidenti di questo anticollaborazionismo fu quella dello sciopero generale indetto in seguito alla convocazione, da parte del Re, di Filippo Turati per un eventuale Governo di coalizione atto a garantire stabilità al Paese e a frenare le squadre fasciste sempre più determinate alla presa del potere[6]

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Luigi Facta

La continua mancanza di accordi e di stabilità governativa, incentivarono ancor di più Mussolini e le sue squadre a diventare sempre più insistenti e decisi nel voler prendere il potere; tra il luglio e l’ottobre del 1922, infatti, si intensificarono le occupazioni dei Municipi e le marce locali delle camice nere. In quei mesi vennero occupati dai ribelli neri, tra gli altri, i Municipi di Rimini, Andria, Milano, Viterbo e Ravenna[7]. Tra il 20 ed il 27 ottobre, il Re ricevette a San Rossore innumerevoli telegrammi di aggiornamento da parte del Presidente del Consiglio Facta, il quale, ancora il 24 ottobre, considerava molto remota l’ipotesi che Mussolini e le sue squadre potessero marciare sulla Capitale. L’ultimo telegramma arrivò il 27 ottobre con un messaggio estremamente chiaro: i fascisti stavano marciando su Roma[8]. In seguito a questo ultimo telegramma, Vittorio Emanuele III fece ritorno immediato a Roma. Durante il viaggio in treno, a bordo di una normale carrozza di prima classe, il Generale Antonio Clerici, Suo aiutante di campo, accennò le sue preoccupazioni riguardo alla situazione che si stava delineando e fece presente la fedeltà di molti Generali in caso di mobilitazione dell’Esercito, quasi volesse consigliare la soluzione militare al suo Re. Il Sovrano interruppe subito il suo aiutante di campo asserendo: 

“Io sono un capo di Stato co-sti-tu-zio-na-le!!!”[9]

questo implicava la non mobilitazione dell’Esercito, non per quel momento quantomeno. Arrivato a Roma, lo accolse alla stazione Termini il Primo Ministro Facta il quale gli sottopose le sue dimissioni, il Sovrano, data la circostanza, respinse la richiesta sostenendo che le avrebbe accettate solo dopo la regolare proclamazione dell’eventuale Stato d’Assedio, un Governo dimissionario, infatti, non poteva occuparsi che di ordinaria amministrazione, cosa che in quel momento non era possibile. Nella notte tra il 27 e il 28 ottobre, il Sovrano ed il suo aiutante di campo, il Generale Cittadini, lavorarono alla ricerca di una soluzione per fronteggiare la crisi in corso; venne valutata l’ipotesi di richiamare Salandra al Governo, ma la situazione continuava ad aggravarsi di ora in ora. Facta, dal canto suo, la mattina del 28 ottobre, dopo aver convocato il Consiglio dei Ministri, alle 8.30 proclama ufficialmente lo Stato d’Assedio senza curarsi di sottoporlo prima alla firma del Sovrano[10], il quale, una volta presentatogli, non lo firmò. 

Le motivazioni per cui il Sovrano non firmò quel provvedimento sono da ricercare in più campi riguardanti sia la forma, sia la sostanza. Per quanto riguarda la forma, lo Stato d’Assedio proclamato dal Governo era stato diffuso senza rispettare le prerogative regie previste dallo Statuto Albertino[11], di conseguenza senza legittimità, salvo poi mettere al corrente Vittorio Emanuele in un secondo momento. Non fu solo la questione formale, però, a convincere il Sovrano a non firmare il provvedimento. Nella notte tra il 27 ed il 28 ottobre, infatti, arrivarono notizie tragiche anche circa la fedeltà dell’Esercito in caso di un intervento militare per fermare i fascisti. Incontrando il Re, nella notte, il Generale Diaz asserì circa l’eventuale Stato d’Assedio:

“L’esercito farà il suo dovere, ma è meglio non metterlo alla prova”[12] 

a questa dichiarazione si aggiungeranno i titoli della mattina del 28 ottobre de Il Popolo d’Italia in cui veniva riportato 

“Tutte le Caserme di Siena occupate dai fascisti. I grigio – verde fraternizzano con le camicie nere”[13]

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Armando Diaz

Non da ultimo pesarono anche le dichiarazioni di Giolitti, il quale sosteneva che la mobilitazione dell’Esercito sarebbe stata l’equivalente dello scoppio di una guerra civile[14]. Questi ed altri timori fondati del Sovrano, tra cui il rischio che il Fascismo potesse sostituire, con un colpo di Stato, Vittorio Emanuele III stesso con il Duca d’Aosta[15], portarono alla non firma dello Stato d’Assedio. Firmare lo Stato d’Assedio, alla luce di quelle premesse, sarebbe stato un atto estremamente rischioso e folle. Tutt’altro scenario si sarebbe posto se, nel 1921, il Governo Giolitti si fosse adoperato per dimostrare che il Governo nazionale poteva e doveva difendere il prestigio nazionale, ma questa dimostrazione poteva essere data al Paese solo e soltanto reagendo con decisione e punendo severamente i rivoluzionari sia di destra, sia di sinistra. Giolitti, però, preferì, col suo Governo, di astenersi da queste lotte continuando a sperare che tra i comunisti rivoluzionari avesse la meglio il buon senso e che i fascisti rientrassero autonomamente nella legalità politica[16]Un sunto estremamente rilevante di quelle ore lo ha fornito Alberto Consiglio: 

“I quattro ministeri che erano succeduti a quello di Orlando avevano visto gradatamente dissolversi l’autorità dello Stato e la disciplina delle forze armate. Niente era avvenuto di sorpresa. Tutto si era svolto alla luce del sole. Solo all’ultimo minuto dell’ultima ora […] l’ultimo Presidente del Consiglio, che era al potere non per sua volontà, […] ma perché nessuno, dico nessuno, nemmeno il Presidente della Camera aveva accettato di assumerne la successione, dopo aver presentato le dimissioni al Re, proclamava lo Stato d’Assedio”[17].

Il 28 ottobre stesso, in seguito alla prevaricazione del Governo sulla Corona, Facta rassegna le dimissioni e il Re dà inizio a nuove consultazioni per la costituzione di un nuovo Governo. Dopo aver ricevuto le varie delegazioni parlamentari con la speranza di poter dare vita ad un Governo senza Mussolini alla guida dello stesso e sfumata anche l’ipotesi Salandra, il Monarca constatò che, ad eccezione di Nitti, tutti concordavano nel conferimento dell’incarico di Governo a Mussolini[18]. Il Sovrano, seppur detestando la persona di Mussolini, da quel momento dovette conviverci per vent’anni senza poter intervenire sulle scelte del regime in quanto sostenute dal Parlamento prima e dal Gran Consiglio del Fascismo poi, nato con la legge 2639 del 9 dicembre 1928 come “organo supremo che coordina tutte le attività del regime sorto dalla rivoluzione dell’ottobre 1922”[19]

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Francesco Saverio Nitti

Vittorio Emanuele III, durante il Ventennio, vide espandersi in potenza e prestigio il suo Regno, sino al 9 maggio 1936 quando il Duce del Fascismo decretò la nascita dell’Impero in seguito alla conquista dell’Etiopia; in tale occasione, Vittorio Emanuele III assunse il titolo di Re Imperatore[20]. La fondazione dell’Impero fu uno dei momenti di maggior popolarità del regime all’interno della Nazione, dopo tale evento il regime subì una forte perdita di consenso, soprattutto in seguito all’alleanza con la Germania hitleriana, avvenuta ufficialmente il 22 maggio 1939, ed alla conseguente guerra. L’alleanza con la Germania fu stretta solo per volere di Mussolini e del Fascismo, molte furono le perplessità del Re. Durante la seconda guerra mondiale l’Italia dimostrò immediatamente tutta la sua impreparazione militare e nel 1943 si profilava chiara la sconfitta dell’Asse. Fu nella notte tra il 24 ed il 25 luglio 1943 che, in seguito al disastro militare a cui stava andando incontro l’Italia, il Gran Consiglio del Fascismo mise in minoranza Benito Mussolini[21] esautorandolo da qualsiasi potere politico[22] e determinando, di fatto, la fine del regime. Gli ultimi tre anni di Regno furono per Vittorio Emanuele altrettanto ricchi di responsabilità ed impegno: il Paese era nel pieno di una guerra ormai perduta che, dopo l’armistizio dell’8 settembre, sarebbe diventata una vera e propria guerra civile.


[1] Luciano Regolo, Il Re signore. Tutto il racconto della vita di Umberto di Savoia, Simonelli Editore, Milano, 1998, p. 109.

[2] Ivi, p. 110.

[3] Silvio Maurano, Mussolini e il Re mio padre (1), 1958, consultazione in data 29 aprile 2023, https://www.reumberto.it/mussolini-e-il-re-mio-padre-di-silvio-maurano-1/.

[4] Silvio Maurano, op. cit.

[5] Ibidem.

[6] Luciano Regolo, op. cit., p. 110

[7] Ibidem.

[8] Ivi, p. 111.

[9] Ivi, p. 112.

[10] Duccio Chiapello, Marcia e contromarcia su Roma. Marcello Soleri e la resa dello Stato liberale, Aracne, Roma, 2012, p. 123

[11] “[…] Egli [il Re] è il Capo Supremo dello Stato: comanda tutte le forze di terra e di mare […]” Articolo 5 dello Statuto Albertino.

[12] Giovanni Artieri, Cronaca del Regno, Mondadori, Milano, 1978, p. 272.

[13] A. Tasca, Nascita e avvento del Fascismo, La Nuova Italia, Firenze, 1950, p. 433.

[14] Lucio Lami, op. cit., p.51.

[15] Renzo De Felice, Mussolini: Mussolini, il fascista, 1. La conquista del potere, 1921 – 1925, Einaudi, Torino, 1966, p. 361.

[16] Alberto Consiglio, Vita di Vittorio Emanuele III, Rizzoli Editore, Milano, 1950, p. 163.

[17] Ibidem.

[18] Silvio Maurano, op. cit.

[19] Alberto Aquarone, L’organizzazione dello Stato totalitario, Einaudi, Torino, 2003, pp. 493–495.

[20] A questo titolo si aggiungerà quello di Primo Maresciallo dell’Impero il 2 aprile 1938 e di Re d’Albania in seguito alla conquista della stessa il 9 aprile 1939.

[21] Ordine del giorno Grandi.

[22] Mussolini si recò il mattino seguente dal Sovrano per metterlo al corrente di quanto accaduto. Il Sovrano finalmente aveva un motivo costituzionale per destituire Mussolini, cosa che fece nominando Capo del Governo il Maresciallo Pietro Badoglio. Mussolini sarà arrestato e fatto prigioniero sul Gran Sasso d’Abruzzo.