Dante e il Monarchia

di Nicola Bosco

Non v’è dubbio che Dante sia il padre della letteratura italiana: un “papà” controverso, battagliero, originale e che ha fatto della politica l’oggetto di molte sue opere (specialmente a seguito del suo esilio avvenuto nel 1302).

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Partiamo col presupposto che la vita politica nella Firenze del Basso Medioevo non era affatto semplice: a seguito della sconfitta dei ghibellini presso Benevento, nel 1266, questi ultimi nonostante tutto erano rimasti attivi sulla scena politica del centro/Nord-Italia, anche grazie all’afflusso dei poeti siciliani formatisi alla corte federiciana che fuggivano dalla dominazione angioina; Firenze, inoltre, era dilaniata dalle lotte fra i guelfi neri (sostenuti dalle ricche famiglie patrizie fiorentine, ardenti sostenitrici del Papa) e i guelfi bianchi (sostenuti da un gruppo di famiglie aperte alle forze popolari che miravano al raggiungimento di una maggiore autonomia dal pontefice). In questo contesto, Dante si schierò con la seconda fazione in quanto aveva una visione particolaristica e municipalistica della società dell’epoca, difendendo a spada tratta gli interessi della sua città natale tanto da esserne esiliato. Ma proprio a seguito della sua celeberrima cacciata da Firenze, le sue idee politiche cambiarono radicalmente: in primo luogo, egli cercò in tutti i modi di rientrare in armi a Firenze, senza tuttavia riuscirci. A seguito dei numerosi fallimenti militari dei guelfi bianchi esiliati, Dante si ritrovò a vagare per l’Italia, abbracciando l’ideologia di quelle persone che sostenevano l’Impero e l’Imperatore: i ghibellini. Vediamo quindi come Dante, passando da una visione municipalistica, arrivò ad ammirare il modello universalistico di Impero ispirantesi direttamente alla Roma di Augusto e dei suoi successori. Nell’anno 1313, l’Imperatore Arrigo VII discese in Italia. Fu proprio in quel periodo che il fervore filo-imperiale e ghibellino di Dante raggiunse il suo acme. Tuttavia, le cose andarono male per il Sovrano: morì nello stesso anno presso la Val d’Arbia, ponendo fine al sogno imperiale che sarebbe stato recuperato solamente da Carlo V d’Asburgo circa due secoli dopo.

Dante, quindi, abbracciò le tesi universalistiche secondo le quali il potere imperiale, fondandosi direttamente sulla tradizione romana ed essendo stato voluto da Dio stesso per rimediare alla degenerazione umana, debba essere superiore a quello papale, il quale deve presiedere unicamente alla cura delle anime. 

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Dante però non si limita a questo discorso che dall’epoca di Ottone I di Sassonia (fondatore del Sacro Romano Impero) aveva scatenato la celebre lotta per le investiture fra Papa e Imperatore: egli guarda oltre, vedendo nell’Impero una potenza capace di estirpare definitivamente dal mondo il peggior peccato che corrompeva gli animi umani: la cupidigia. L’Imperatore, secondo Dante, avrebbe avuto il ruolo di possedere ogni cosa presente sulla terra. In questo modo, le persone non avrebbero desiderato nulla in più, fuggendo quindi il turpe peccato della cupidigia, e nemmeno l’Imperatore sarebbe caduto in questo peccato poiché, possedendo tutto, non avrebbe avuto motivo per bramare altro.

Il ruolo dell’Impero, inoltre, in quanto voluto da Dio stesso, ha un ruolo fondamentale secondo Dante per la religione cristiana: la diffusione della parola di Gesù in ogni angolo della terra, in quanto, non avendo confini, il Verbo avrebbe la capacità di diffondersi con maggiore rapidità ed efficacia, esattamente come avveniva ai tempi dell’Impero Romano.

Dante scrisse tutto ciò nell’opera chiamata Monarchia, la quale fu sempre osteggiata dalla Chiesa tanto che, nel 1329, nel maggior momento di fortuna di quest’opera, il cardinale Bertrando del Poggetto la bruciò pubblicamente. Come se non bastasse, il Monarchia venne inserito nell’Indice dei libri proibiti, nel quale rimase sino al 1881.