Il Lambrusco, un vino amato in tutte le tavole del mondo

di Gianluca Beggi

Sono nato a Scandiano, un comune a pochi chilometri da Reggio Emilia, nel mezzo della pianura padana, un luogo ricco di storia, di poeti, scrittori e scienziati, ma soprattutto dove abbondano i prodotti della terra; uno di questi sicuramente è l’uva da cui si estrae quel nettare prezioso e ineguagliabile che è il vino, in particolare il Lambrusco.

Sono di origini contadine, almeno da parte di madre, per cui quando si parla di campagna, animali, alberi da frutta, la memoria va a quando, prima da bambino, poi da ragazzo, andavo con mia nonna che lavorava presso dei contadini della zona. Era un mondo di adulti, ma un mondo in cui mi divertivo moltissimo; essere a contatto con le mucche e i cavalli, per un adolescente, era molto emozionante. A quei tempi, parlo di circa cinquanta anni fa, in queste case di campagna - chiamarle fattorie era un po’ esagerato - l’andamento e l’organizzazione dei lavori non era certamente paragonabile a oggi: le macchine agricole erano molto trasandate, venivano riparate solo quando si rompevano e in modo anche approssimativo, nell’aia regnava per lo più il disordine, quando qualcosa non si usava più lo si appoggiava al muro pensando che un giorno potesse venire utile, accumulando, così, tante cose senza sapere cosa era buono e cosa no. Allora si lavorava la terra con animali da traino poi sono arrivate le macchine, allora importanti, ma non con la potenza di quelle odierne.

Quasi tutti giorni esco a camminare, vado per lo più verso la campagna, generalmente seguo l’argine di un torrente; rispetto al terreno circostante sono sopraelevato di circa tre o quattro metri per cui ho una visione generale delle coltivazioni e delle lavorazioni. Quella che mi ha sempre colpito maggiormente è la vendemmia. Un tempo questo processo produttivo era fatto esclusivamente a mano, era come un luogo di aggregazione dove, seppur lavorando molto duramente, si parlava, ci si scambiavano opinioni, soprattutto di cibo e come cucinarlo, si parlava della famiglia, insomma, c’era un contatto umano; ora, invece, è quasi tutto automatizzato. Ho potuto vedere dall’alto come è cambiata questa produzione, vedere queste macchine molto grandi, devono essere alte in modo da abbracciare il filare della vigna, avanzare lentamente e fare con un unico uomo ciò che prima faceva una squadra di persone.

I miei nonni avevano una piccola vigna ad uso personale, ma non da avere il raccolto da portare alla cantina sociale. Io contribuivo in modo giocoso e non certo produttivo alla pigiatura con i piedi: tutto questo schizzare di mosto rosso era fonte di ilarità, tuttavia a pensarci ora, e non con l’ingenuità di un ragazzino, era l’unico momento per vedere le donne più grandi (ci si scambiava tra le varie famiglie l’aiuto per questi lavori) un po’ più svestite, con le gambe nude, fino a quelle belle cosce tornite che nella prima adolescenza si guardavano in modo naturale, poi con il passare degli anni, quegli spruzzi di liquido color rubino sulla pelle bianca facevano fare pensieri diversi. Il progresso e la meccanizzazione della lavorazione dell’uva hanno tolto il piacere della immaginazione di quei momenti. Ora il gioco non c’è più, sono passato alla fase successiva, il vino lo bevo, lo assaporo, lo abbino a piatti che mi piace cucinare, insomma, amo il Lambrusco.

Sembra siano stati gli Etruschi a coltivare questa vite nella pianura padana, ma è solo con i Romani che si è iniziato a fare una coltivazione più intensa e ragionata; Catone parlava di vite selvatica e la chiamava “labrusca”, tuttavia non esistono testimonianze e prove che fosse il lambrusco odierno. Quello che è certo, invece, era la conformità del terreno della nostra zona che favoriva la qualità del vino, terreno povero di ghiaia e ciottoli, per cui l’acqua scorre via, ma ricco di argilla che conferiva una plasticità e una compattezza che, oltre a trattenere l’acqua, agevolava la formazione dei coloranti dell’uva e tratteneva le proprietà nutritive.

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A Scandiano, come in tutti i comuni d’Italia, ci sono diverse cantine sociali dove i contadini portano l’uva vendemmiata. Il Lambrusco, fino a pochi decenni fa, era un vino contadino, si vendemmiava, si pigiavano i grappoli, si facevano fermentare grazie ai lieviti contenuti nelle bucce, poi si imbottigliavano aggiungendo dello zucchero non fermentato; la fermentazione ripartiva in modo spontaneo alla fine dell’inverno e i lieviti si svegliavano dal letargo. Era proprio in quel preciso momento, come per magia, che il vino diventava frizzante, il cosiddetto metodo ancestrale. Ovviamente c’era il fondo, ricordo sempre mio nonno quando si arrivava a versare la parte finale della bottiglia diceva a mia nonna “va pian che ghe al fes”, vai piano che c’è il fisso (il fondo). Per i vecchi contadini questa parte di residuo veniva messa sul pane la mattina per fare colazione, eh già... altri tempi. Dopo la pigiatura venivano tolte le graspe più grosse, lo scheletro del grappolo, e venivano messe nel torchio le bucce degli acini. Queste venivano pressate per estrarre fino all’ultima goccia di mosto. Non si buttava nulla! In seguito, dopo il filtraggio in sacchi di cotone appesi al soffitto, avveniva l’imbottigliamento, anche qui in modo totalmente manuale. Io cercavo di dare il mio contributo, anche perché, mio nonno, di nascosto da mia nonna, mi faceva assaggiare qualche sorso di vino. Poi, a un certo punto, dopo l’imbottigliamento c’era la tanto temuta fase degli scoppi delle bottiglie; vuoi per averle maneggiate male o per una scarsa qualità dei tappi, vuoi per il calore della cantina, sta di fatto che sembrava di essere a carnevale con i botti. Ricordo perfettamente le imprecazioni di mio nonno che diceva: tanto lavoro e molto sacrificio riversato in terra; lo diceva, ovviamente, con parole un po’ più colorite e in dialetto.

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Il metodo ancestrale per la lavorazione del Lambrusco non era altro che lo stesso per fare lo champagne, quando ancora non veniva sboccato ed aggiustato con il “liqueur d’expedition”. In origine il lambrusco era un vino torbido, leggermente frizzante, acido, molto profumato e con un sapore tagliente; poi avvenne la rivoluzione commerciale, le grandi cantine sociali scoprirono che era una bevanda non troppo alcolica, piacevole da bere e non solo a pasto, per cui si iniziò a produrlo in larga scala, un po’ più abboccato. Purtroppo tutto questo portò alla morte del metodo artigianale, si aumentò la produzione facendo arricchire molte persone, ma dando una cattiva nomea al Lambrusco, riducendolo a un qualunque vinello di 8 gradi e non a quel prodotto corposo che era in origine.

Anche oggi, parlando del Lambrusco lo si equipara più a una bevanda che a un vino, sbagliando ovviamente, ma purtroppo il danno era stato fatto; qualcuno prova ancora con il metodo artigianale, ma non è certo il metodo ancestrale, è un vino filtrato, cristallino. La diversità del carattere di questo vino da come era fatto un tempo, rispetto ad ora, mi fa pensare a quando mia nonna, nelle festività importanti, metteva la famosa tovaglia bianca inamidata, con i tovaglioli stirati e ripiegati a triangolo. Era allora che mio nonno portava in tavola la bottiglia di Lambrusco a sottolineare l’importanza del pregiato vino rosso. In quei tempi non c’erano ancora i bicchieri colorati come oggi, quando si versava il vino il vetro rimaneva macchiato dall’intensità e dalla corposità del liquido e si poteva leggere negli occhi di mia nonna il terrore qualora fossero cadute delle gocce scure sul bianco immacolato. Lei ci avrebbe rincuorato dicendoci che non era successo niente, ma tutti noi sapevamo che in cuor suo era come una ferita inferta a tutta la fatica che aveva fatto per far si che tutto fosse perfetto.

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Questo vino è tipico delle provincie di Modena e Reggio Emilia, i vitigni danno il nome al Lambrusco, Sorbara, Salamino, Ancellotta, Marani, ecc. Nelle varie cantine sociali lo si può acquistare in bottiglia, ma anche in damigiana per poi imbottigliarlo a casa propria, seguendo le fasi lunari, acquistando i tappi, lavando le bottiglie, ma soprattutto cercando di farsi aiutare dai nipoti per cercare di rivivere e fare vivere quelle emozioni di un tempo.

Per molti questo vino non ha le qualità degli spumanti d’oltralpe, non è adatto per le ricorrenze e per i festeggiamenti, in altre parole non è ritenuto un vino nobile, non s’identifica come un re dei vini, anche se in particolare modo fuori dall’Italia viene definito lo “Champagne rosso”. Gli stessi produttori di Champagne hanno iniziato a produrne una qualità “Rosè”: meditate!