Il Trentino nella Grande Guerra con le parole di Maria Luisa Crosina

  (Un ringraziamento speciale al Ten. Pasquale Trabucco)

di Maria Luisa Crosina, intervento ad una conferenza sulla Grande Guerra al Campidoglio di Roma, 27 marzo 2019


"Mi presento: sono ricercatrice storica, laureata in lettere e filosofia, ma qui mi piace ricordare che sono trentina, di padre trentino e di madre triestina. I miei nonni materni furono irredentisti, perseguitati dall’Austria e rimossi dai rispettivi posti di lavoro per italianità (il nonno direttore di una delle tre sezioni delle poste di Trieste, la nonna impiegata in Comune). Avevano dato questi nomi alle loro tre figlie: Anita Vittoria Italia, Margherita Ausonia Stella, Clelia Romana Libera. Allorché mia zia Anita fu sottoposta a processo militare per essersi rifiutata di cantare l’Inno austriaco durante l’inaugurazione dell’anno scolastico (si era nel 1917) uno dei giudici disse che già i nomi delle tre sorelle costituivano un atto d’accusa. Particolarmente commovente per me oggi salire i gradoni dell’Altare della Patria per rendere omaggio al Milite Ignoto. Mia madre era presente con le sue compagne di Liceo, quando Mamma Bergamas lo scelse nella Basilica di Aquileia.

Mio padre, di sentimenti italianissimi, fu accomunato alle vicende di tanti soldati trentini. Basti dire che salì al Col del Rosso con nello zaino due libri trovati fuori da una casa distrutta: un libro di preghiere dei morti ed i Sepolcri del Foscolo.


Io traccerò un profilo del Trentino durante la Prima Guerra mondiale; la storia e la connotazione della mia terra, da sempre di lingua e di cultura italiane, sono conosciute molto poco nel resto d’Italia, e spesso il Trentino viene fatto coincidere con l’altra parte della regione che si chiama Alto Adige. A me stessa, molte volte, è accaduto di sentirmi chiedere dove avessi imparato così bene la lingua italiana…

Le vicende che coinvolsero la popolazione civile e militare trentina durante il conflitto, a causa del particolare assetto politico territoriale del Trentino, evidenziano una situazione del tutto peculiare rispetto agli avvenimenti di quel periodo.

Nel 1914 gli austriaci chiamarono alle armi gli uomini di età compresa tra i 21 e i 42 anni. Dal 1915 al 1918, quelli compresi tra i 18 e i 49 anni
Le ferite, come rileva Vincenzo Calì, furono tanto pesanti, che per il Trentino durante la Grande Guerra si è parlato di “popolo scomparso”. Su 380.000 abitanti, 55 mila furono i soldati mandati a combattere, volenti o nolenti, con l’esercito austriaco in Galizia. Di questi 11.000 vennero uccisi. E’stato detto a ragione che la Galizia fu la tomba dei trentini. Altri soldati furono inviati sul fronte russo e sui Carpazi.

Quindi, all’entrata in guerra dell’Italia il 24 maggio del 1915, già da 10 mesi oltre 70.000 soldati trentini, erano stati avviati a combattere, senza particolari ideali, sui vari fronti. Di essi 12.000 morirono. Dopo il 24 maggio ci furono gli internati: 80.000 in Austria e 30.000, provenienti dalle zone occupate, nelle regioni del centro sud.

Con l’entrata in guerra dell’Italia, il fronte si fece vicino. Iniziava per la popolazione trentina, già provata da restrizioni, distacchi e lutti, un’altra drammatica storia: quella dell’esodo. L’Alto Garda, zona dalla quale provengo, da sempre linea di confine, e direttamente interessata al conflitto del 1915-18 per motivi strategico-militari, all’entrata in guerra dell’Italia venne subito investito; la popolazione maschile fu immediatamente mobilitata nel reggimenti imperiali austriaci dei Kaiserjaeger e Landschuetzen, nelle città e paesi tutto fu requisito, l’intera popolazione venne evacuata abbandonando case, averi, terra, bestiame.

Così scriveva in quei giorni nel suo diario un ragazzo di nemmeno vent’anni, di Riva del Garda, al suo primo incarico di maestro in Valle di Ledro (quel ragazzo, Mario Crosina, era mio padre):

20 maggio 1915: “L’entrata in guerra dell’Italia è certo imminente. La nostra unica speranza, per oggi e per l’avvenire, è nel suo intervento. Aspettiamo tesi in un’ansia tormentosa, ma saldamente fidenti nei fratelli d’oltre confine. Al primo balzo saremo liberati e redenti per sempre.”
22 maggio: “ E’ giunto il momento terribile dell’esodo. L’ordine di sgombero è arrivato poco dopo mezzogiorno e la popolazione è annientata. Per domani mattina il paese dovrà essere deserto: così durante la notte, appena si potrà, partiremo. Quale sarà la nostra meta? Non sappiamo. […] Quale sarà il nostro destino? Come e di che vivremo? Ci si concede di portare con noi un pacco di viveri e nulla più.”

La destinazione per quei profughi fu la Boemia, gli anni là trascorsi passarono nella memoria collettiva della gente della valle di Ledro col nome di esilio boemo. La valle di Ledro, una parte della Vallagarina e della Vallarsa, l’alta Valsugana, il Basso Sarca, buona parte della zona di Trento furono evacuate nel giro di pochi giorni. Gli abitanti furono distribuiti su un territorio venti volte più vasto del Trentino e vennero a contatto con realtà assai diverse da quelle dei paesi d’origine. In Boemia furono dislocati 11.405 profughi, 19.717 in Moravia, 12.956 in Austria inferiore, 12.317 in Austria superiore. I nomi di Mitterndorf nei pressi di Vienna, di Braunau, la città di legno a nord est di Salisburgo dove la vita fu proibitiva, sono ben presenti ancora tra la nostra gente. “A Mitterndorf ci alloggiavano in baracche e la gente del luogo era alquanto diffidente nei nostri confronti in seguito ad una falsa propaganda, secondo la quale eravamo dei sovversivi. Ricordo che quando si passava per le strade, ci seguiva un codazzo di bambini che gridavano “porco taliano”. Le uniche parole che sapevano in italiano”.
Meglio andò in Boemia, dove almeno l’ostilità non si fece in genere sentire (vista forse l’insofferenza che le due popolazioni avevano in comune con la dominazione austriaca), e dove si instaurarono rapporti di comprensione e amicizia che durano tuttora, anche se pure lì la vita fu assai difficile e assai numerosi furono i morti.

Oltre 75.000 furono i profughi trentini sparsi in varie regioni dell’Impero, i confinati, gli internati per irredentismo od anche i sospettati di sentimenti filo italiani (1700 nella sola Katzenau), i fuoriusciti e profughi in Italia (circa 35.000) Più della metà della popolazione trentina fu quindi costretta ad abbandonare la propria terra. Anche il vescovo di Trento, Celestino Endrici, sospettato di atteggiamenti filo italiani, venne relegato dal 1916 in poi nell’Abbazia di Heiligenkreutz in Austria.
Dal Trentino vi fu anche un consistente numero di fuoriusciti. Dal 1914 al 1915 il solo Comitato Profughi di Milano, quello di cui solo si è mantenuto intatto l’archivio, annovera 1300 fuoriusciti maschi; di questi 500 si arruolarono nell’esercito italiano come volontari dopo il 24 maggio. Per quanto si è potuto constatare, visto che gli archivi dei Comitati Profughi di Torino, Verona, Bologna, Firenze, non si sono così ben conservati, si può calcolare che i volontari trentini nell’esercito italiano assommarono intorno ai 900. Erano in gran parte studenti, ma anche operai fra i quali viva era stata la propaganda di Cesare Battisti, intellettuali, artigiani, impiegati che, varcato il confine, erano accorsi per rivendicare la propria italianità. 103 di essi caddero in battaglia, 350 furono decorati al valor militare, tra i quali 12 con medaglia d’oro. Tra questi i più noti sono i nomi di Cesare Battisti, Fabio Filzi, Damiano Chiesa, i primi due impiccati, il terzo fucilato nella fossa del Castello del Buonconsiglio di Trento.

Cesare Battisti, figura di alto spessore intellettuale e morale, fu catturato insieme a Fabio Filzi il 10 luglio 1916 sul Monte Corno (ora Corno Battisti) in Vallarsa e impiccato due giorni dopo. Geografo, giornalista, traduttore, di fede socialista, sindacalista, si era sempre adoperato per le rivendicazioni dei diritti delle classi più umili; aveva fondato la Società degli Studenti trentini ed i due giornali “Il popolo” e  “Vita Trentina”. Deputato per il Collegio di Trento città al Parlamento di Vienna (1911) e poi alla Dieta di Innsbruck (1914) si era sempre battuto per rivendicare l’autonomia amministrativa del Trentino e l’istituzione di un’università italiana in Austria. Aveva anche sostenuto un centinaio di processi per le idee diffuse dal suo giornale. Trasferitosi nell’agosto 1914 in Italia, era diventato propagandista attivo per chiedere l’intervento italiano contro l’Impero Austroungarico e, scoppiata la guerra, si era arruolato come volontario tra gli alpini, combattendo nell’ultimo periodo della sua vita sul monte Baldo e sul Pasubio nel battaglione Vicenza, dove rivestiva il grado di tenente. Immediatamente dopo la sua cattura venne istruito un processo lampo e il cui esito era stato già deciso a priori, senza garanzie per l’imputato e senza difesa di fiducia. Tutta questa operazione aveva fini precisi per l’autorità asburgica, perché Battisti era ancora deputato austriaco. Non rinnegò mai il suo operato e ribadì la sua piena fede per l’Italia. Respinse l’accusa di tradimento a lui rivolta, basata sul fatto di essere suddito asburgico passato alle file nemiche. Egli si considerò soldato catturato in un’azione di guerra. Tale la sua fiera ammissione durante il processo:

«Ammetto di aver svolto, sia anteriormente che posteriormente allo scoppio della guerra con l'Italia, in tutti i modi - a voce, in iscritto, con stampati - la più intensa propaganda per la causa d'Italia e per l'annessione a quest'ultima dei territori italiani dell'Austria; ammetto d'essermi arruolato come volontario nell'esercito italiano, di esservi stato nominato sottotenente e tenente, di aver combattuto contro l'Austria e d'essere stato fatto prigioniero con le armi alla mano. In particolare ammetto di avere scritto e dato alle stampe tutti gli articoli di giornale e gli opuscoli inseriti negli atti di questo tribunale al N. 13 ed esibitimi, come pure di aver tenuto i discorsi di propaganda ivi menzionati. Rilievo che ho agito perseguendo il mio ideale politico che consisteva nell'indipendenza delle province italiane dell'Austria e nella loro unione al Regno d'Italia.»

Non gli fu concesso di essere fucilato come aveva chiesto, anziché impiccato, per rispetto della divisa che indossava, ma fu vestito con panni disdicevoli il cui pagamento fu imposto alla famiglia, alla quale non gli fu permesso di scrivere per l’ultima volta.

I trentini che si arruolarono nell’esercito italiano dal 1917 in poi, furono riuniti nella Legione Trentina costituitasi a Firenze. A parziale smentita di un’idea di filo italianità diffusa quasi esclusivamente nei centri urbani, sui 900 volontari fin qui reperiti attraverso gli studi negli archivi, 344 erano nativi dei centri maggiori (Trento, Rovereto, Riva del Garda)  ed altri 558, quasi due terzi, dai piccoli centri della regione (parecchi di essi dalla Valle di Ledro)

Ed ora, a conclusione, una mia diretta esperienza che risale al 1999 e che dimostra quanto le vicende della I guerra mondiale siano ancora presenti nella memoria collettiva della nostra Italia. Alla fine del 1998 fui incaricata dalle ferrovie austriache tramite l’Associazione Italia-Austria di Trento di cui ero socia fondatrice, di rintracciare i discendenti dei prigionieri italiani che nel 1916, prima quindi della disfatta di Caporetto, avevano costruito un viadotto lungo 4 chilometri a Florisdorf, il XXI distretto di Vienna, destinato a collegare due tronchi ferroviari alla periferia nord della capitale attraversando il Danubio. Quel viadotto, importante dal punto di vista strategico, con 220 arcate serviva allo smistamento del materiale bellico destinato al fronte russo e al cantiere furono chiamati 4.500 soldati italiani internati assieme ad altri 70.000 connazionali circa nei vicini campi di Leopoldau, Breitenlee, Sigmundsherbberg. In quest’ultimo cimitero riposano ben 2379 prigionieri italiani. Cinquecento di questi 4500 soldati chiamati a costruire il ponte, morirono di stenti e di malattie durante la prigionia e furono sepolti nel reparto riservato ai caduti italiani, del Zentralfriedhof, il cimitero monumentale di Vienna, a sud della capitale. Di essi poi si perse la traccia e neppure i familiari, il più delle volte, seppero quale sorte fosse toccata ai loro congiunti che non avevano fatto ritorno dalla prigionia. Da sempre quel viadotto, nel linguaggio dei viennesi, era stato chiamato Italienerschleife, la bretella degli italiani, perché costruita dagli italiani. Quel tratto di ferrovia messo fuori uso dai bombardamenti del 1944, era stato riattivato per utilizzare la vecchia bretella nell’ambito di un moderno trasporto merci ed il distretto di Florisdorf chiese ed ottenne che l’opera fosse questa volta ufficialmente dedicata al ricordo degli ex nemici molti dei quali morti in terra straniera per realizzare quest’opera. Il giorno dell’inaugurazione la gente di Florisdorf voleva accanto a sé quanti più possibile dei discendenti di questi prigionieri e mi si chiedeva di rintracciarli. E così mi fu permesso di vivere un’esperienza incredibile.

 Quando iniziai, chiedendo e ricevendo dal Commissariato Generale Onoranze Caduti in Guerra del Ministero della Difesa, la documentazione, illustrando su giornali e riviste e attraverso la RAI di Trento il mio progetto e facendo appelli, ero ben lungi dall’immaginare quanti consensi questa ricerca avrebbe riscosso. Furono sei mesi di lavoro intenso e di commozione più che intensa. Ricevetti centinaia di lettere e fax, telefonate che mi giunsero da ogni parte (una persino dal Canada). Quelle lettere, quelle telefonate, testimoniarono come 80 anni non fossero riusciti a lenire nella memoria collettiva e, tanto meno, in quella familiare, il dolore di un distacco il più delle volte definitivo e testimoniarono, rendendomi ancora più convinta di ciò che stavo facendo, di quanti valori potessero ancora esistere e tramandarsi. Il viadotto rinnovato, chiamato Weinende Bruecke, il ponte delle lacrime, venne inaugurato il 29 maggio 1999 alla presenza di autorità austriache ed italiane, di una cinquantina di discendenti di quei prigionieri giunti da ogni parte d’Italia. Il gruppo più numeroso giunse dalla Sicilia. Rappresentavano l’Italia l’ambasciatore Josef Nitti e l’addetto militare colonnello Massimiliano Terraveglia oltre ad ufficiali dello Stato italiano. Giunse anche una folta rappresentanza dell’Associazione dei Ragazzi del ’99. Su quel viadotto venne collocata una statua dello scultore italiano Wander Bertoni rappresentante un ponte da cui cadono copiose lacrime, a ricordo del sacrificio di tanti nostri connazionali".