Napoli, Via Medina: la repressione di una legittima protesta

di Carlo Giovanni Sangiorgi


Vi sono storie di fatti accaduti che non si insegnano nelle scuole o che non si vogliono raccontare, specie quando vi sono verità talmente scomode da poter mettere in discussione i fondamenti stessi di ciò che siamo abituati ad indicare come buono e giusto. Esiste anche il fenomeno del negazionismo, la volontà di negare avvenimenti o di modificarli secondo una logica di convenienza, la creazione di una sorta di verità artefatta. Sono tempi duri per la Storia, colei che dovrebbe guidarci, ma spesso utilizzata come mero strumento di indottrinamento e quindi di indirizzo.

Nel giorno della festa della repubblica, il 2 giugno, i pensieri di molti cittadini sono rivolti alla celebrazione della democrazia, del trionfo del bene sul male, l’emancipazione popolare e l’inizio di uno dei periodi più splendidi della Storia del nostro Paese. Tuttavia, a prescindere dal proprio orientamento istituzionale, questi entusiasmi possono essere inibiti se si riflette su ciò che accadde veramente nei giorni immediatamente seguenti il famoso referendum tra Monarchia e repubblica: è davvero difficile gioire innanzi alle tante testimonianze di violenza e barbarie commesse su cittadini monarchici inermi, coloro che semplicemente rivendicavano il diritto alla protesta, in un Paese ove la tensione era palpabile, in quanto si stavano decidendo le sorti di un’intera Nazione.

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Il 10 giugno 1946, dopo uno scrutinio accompagnato da sinistre ombre, la Suprema Corte di Cassazione dichiarò circa 12 milioni di voti alla repubblica e 10 milioni alla Monarchia. I risultati ufficiali mostravano un Paese estremamente diviso, con il Nord più schierato verso la repubblica e il Sud nettamente favorevole alla Real Casa Savoia. I monarchici presentarono migliaia di ricorsi alla luce delle segnalazioni del ritrovamento di molte schede elettorali buttate o ritrovate in circostanze misteriose e sulla base di vizi della stessa legge referendaria che non pareva chiara circa le modalità di conteggio dei voti e sul quorum necessario. Questi reclami costrinsero la Corte a rimandare la conferma dei risultati definitivi al 18 del mese.


Il Governo, allora guidato da Alcide De Gasperi, voleva affrettare però la proclamazione della repubblica senza il responso della Cassazione ed iniziò quindi ad esercitare pressioni nei confronti del Ministro della Real Casa Falcone Lucifero e lo stesso Re Umberto II, affinché vi fosse stato l’immediato passaggio dei poteri. Quest’ultimi, ovviamente, rifiutarono, in quanto per legge era necessario il responso della Corte sui conteggi ed i ricorsi presentati.

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Questa situazione di incertezza e tensione, coadiuvata dalle voci di presunti brogli, generarono il malcontento dei monarchici che ben presto si tradusse in manifestazioni di massa per le strade e le piazze. Al Sud, città come Palermo, Taranto, Bari, Messina e soprattutto Napoli, insorsero dando vita ad imponenti cortei, colorando le vie di tricolori sabaudi, foto del Re e cartelloni. Per queste persone, inoltre, il largo consenso esercitato non trovava riscontro nei risultati referendari fino ad allora pubblicati e ciò aumentò ulteriormente la percezione dei brogli di cui si era diffusa notizia.

La città partenopea, in cui oltre l’80% della popolazione aveva votato Monarchia, fu protagonista dello scenario di violenza più cruento di quei giorni post-referendum: l’allora Ministro dell’Interno Giuseppe Romita, per evitare l’insurrezione dei monarchici al Sud, reclutò un corpo di polizia ausiliaria formato principalmente da ex partigiani provenienti soprattutto dal Nord Italia, già di per sé ostili al Re e alla gente autoctona. Queste persone commisero atrocità nei confronti dei manifestanti inermi, causando morti e centinaia di feriti.
Il culmine delle efferate violenze si consumò l’11 giugno, lungo la strada a cui darà il nome alla più famosa delle stragi: quel giorno, in città, si diffuse la voce che la sede della federazione comunista sita in via Medina, aveva esposto alle finestre, oltre alla bandiera rossa di partito, anche un Tricolore senza lo Scudo Sabaudo. I manifestanti presero il gesto come una esplicita provocazione, pertanto il corteo si diresse verso l’edificio con l’obiettivo di rimuoverla. Ivi giunti, un gruppo di manifestanti tentò di entrare nello stabile, tuttavia esso era presidiato dalla polizia ausiliaria: da lì si scatenò una violenta battaglia ed essi, vedendosi sopraffatti, aprirono il fuoco sui manifestanti senza alcuna pietà. Sull’asfalto ed in seguito alle ferite riportate caddero esanimi diciotto giovani monarchici, perlopiù ventenni, tra cui la studentessa Ida Cavalieri, di soli 19 anni, che avvolta nel tricolore venne colpita ed investita da una autoblindo e il giovanissimo quattordicenne Carlo Russo. In quel caos generale che ne derivò fu testimone il futuro intellettuale comunista Biagio De Giovanni, allora adolescente, il quale scrisse:


<<Già leggevo Hegel - ero monarchico perché credevo all'unità dello Stato. (...) Scappai quando la situazione s'incanaglì>>1.

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Oltre ai morti, le raffiche di mitra provocarono un centinaio di feriti.

Il quotidiano “Italia Nuova” diretto da Enzo Selvaggi descrisse così i fatti avvenuti quel giorno:


<< In quest'ora apparve in Via Medina un corteo di dimostranti che transitava per raggiungere il centro della città. Altri cortei si erano formati nei quartieri più popolari della periferia e si dirigevano verso il centro. In Via Medina c'è la sede napoletana del PCI. Una bandiera rossa sventolava ad una finestra ed un'altra tricolore senza lo stemma sabaudo, era esposta ad un'altra finestra. Le poche forze di polizia che stazionavano a protezione della sede, intuirono subito quali conseguenze avrebbero provocato quelle due bandiere. Così si disposero subito a difesa del portone che dà accesso alla sede. La folla dei dimostranti diede subito a capire che intendeva togliere dalle finestre le due bandiere. Le versioni su questo momento sono diverse e contrastanti. È un fatto che, subito avvertite, altre forze di polizia con camionette e autoblindo giunsero sul luogo. D'improvviso il grido della folla venne interrotto dallo schianto provocato dallo scoppio di una bomba. Dopo un primo momento di perplessità, i dimostranti tentarono di sfondare il portone. Le forze di polizia che forse temevano d'essere soverchiate aprirono il fuoco. Molti caddero a terra feriti. Seguì un silenzio profondo che durò un attimo.

E infatti si diradarono dirigendosi verso l'una o l'altra parte di Via Medina. Ma a terra giacevano e lanciavano grida orrende di dolore. Altri feriti, meno gravi, stimolavano invece i dimostranti a continuare nella lotta.
Intanto la notizia della sparatoria in Via Medina, s'era diffusa in città. I dimostranti degli altri cortei che già avevano raggiunto il centro appreso ciò che stava avvenendo, invertirono la loro marcia e si dirigevano verso Via Medina. L'arrivo delle nuove colonne di dimostranti provocò il rinnovarsi della lotta che è durata per circa due ore. La polizia ha fatto ancora uso delle armi contro i dimostranti i quali provvedutisi, in un deposito alleato vicino, di fusti vuoti di benzina, si son serviti di questi per proteggersi. C'è chi ha tentato con un bidone di benzina di appiccare il fuoco al portone della casa dove ha sede il PCI.

Le autoblindo e le camionette cariche di agenti hanno compiuto diverse evoluzioni nella strada e nelle vicinanze per cercare di rompere il cerchio della massa dei dimostranti. Ma appena l'intenzione della polizia si rivelò, alcuni dimostranti hanno bloccato l'accesso di Via Medina con due vetture tramviarie. Una donna caduta a terra a seguito all’ondeggiamento della folla è finita sotto un'autoblindo. La lotta continua ancora alle ventidue. Altre bombe vennero lanciate e altre raffiche di mitra vennero sparate dalla polizia. Poi la folla dei dimostranti ha cominciato a defluire dall'una e dall'altra parse di Via Medina non senza aver prima raccolti i morti e i feriti i quali vennero tutti trasportati agli ospedali. […] Numerosi episodi di violenza da parte della polizia vengono segnalati. In Piazza Carità alle 10 un gruppo di cinque persone era presso un'edicola quando si fermava improvvisamente una camionetta di “ausiliari” i quali senz'altro si davano a colpire coi manganelli i pacifici cittadini. Un vecchio e una ragazza, caduti a terra, sono stati ancora ripetutamente malmenati coi calci di fucile, fra l'indignazione dei presenti.>>2


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La testata giornalistica accusò il Sottosegretario di Stato Giorgio Amendola di aver dato ordine alla polizia di aprire il fuoco sulla folla, abusando dunque della sua posizione all’interno del Governo per sostituirsi al Prefetto di Napoli. Questa notizia provocò indignazione nella società partenopea e suscitò ulteriormente il malcontento, sebbene Amendola fosse stato conseguentemente arrestato (ma poi rilasciato) dalla Polizia Alleata.

Nei giorni successivi altre manifestazioni vennero represse violentemente andando ad esaurirsi quando, alle 16 del 13 giugno, Re Umberto II lasciò l’Italia per evitare una nuova guerra civile ed ulteriori sofferenze alla popolazione. Il proclama di protesta che egli rilasciò denunciando l’illecito del Governo nell’assumere pieni poteri prima della pronunciazione sui risultati della Suprema Corte di Cassazione, rimane una testimonianza autentica e fondamentale per comprendere in che clima si svolse il referendum in quei tristi giorni. Queste ombre di brogli o comunque pressioni da parte di esponenti repubblicani quali Pietro Nenni (nella sua celebre frase “O la repubblica o il caos”3), Alcide de Gasperi, Palmiro Togliatti (che nel Consiglio dei Ministri della notte tra il 12 e il 13 giugno affermò “sono d’accordo per l’uso della forza”4 ed anche “i parti difficili vanno assistiti e pilotati”5) vennero confermate dalla testimonianza diretta di Giuseppe Pagano, l’allora presidente della Cassazione, che in un’intervista del 1960 affermò


«l’angoscia del Governo di far dichiarare la repubblica era stata tale da indurre al colpo di Stato prima che la Corte Suprema stabilisse realmente i risultati validi definitivi6».


Ancora oggi i demoni di quella triste vicenda fanno sentire le conseguenze di quello che fu un’ingiustizia sociale a danno di gran parte della cittadinanza italiana, per non parlare di coloro che vennero addirittura esclusi dall’elettorato, come gli abitanti della Venezia Giulia, Dalmazia, Alto Adige e della Libia, nonché i prigionieri di guerra non ancora rientrati in Patria, i quali si videro privati del diritto a determinare le sorti della propria Nazione. Ed è sempre attualmente che molte persone di dubbia preparazione storica o viziati da interessi personali e politici, occultano o mistificano fatti accaduti ove si rischia di offendere la memoria di chi ha dato la vita per esercitare il diritto alla libertà di pensiero. Un noto politico che occupò le sale del Quirinale, Giorgio Napolitano, in un’intervista televisiva datata 22 maggio 2016 a “Che tempo che fa” in onda sulla RAI, giudicò i manifestanti monarchici di via Medina “popolino isterico”. Innanzi a certe dichiarazioni si può certamente riflettere sulla cultura politica che investì inevitabilmente il secondo dopoguerra sino ai giorni nostri. I cittadini italiani sono liberi di pensare ciò che vogliono della Storia, ma quei morti ci sono realmente stati, perlomeno che si porti loro rispetto.

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1 https://it.wikipedia.org/wiki/Biagio_De_Giovanni#cite_note-1

2 https://archiviostorico.blogspot.com/2009/05/la-brutale-repressione-antimonarchica.html?m=1

3 https://www.secoloditalia.it/2017/06/2-giugno-un-referendum-macchiato-di-sangue-la-strage-di-via-medina-a-napoli/

4 https://www.ilmattino.it/dillo_al_mattino/eccidio_di_via_medina_la_replica_di_un_napoletano_e_monarchico_a_napolitano-1759597.html

5 Guido Jetti, “Il referendum istituzionale”, Guida Ed. pg. 167

6 https://www.secoloditalia.it/2017/06/2-giugno-un-referendum-macchiato-di-sangue-la-strage-di-via-medina-a-napoli/