Per Vittorio Emanuele II, Bicentenario della nascita del Re che ha fatto l'Italia

di Pietro Fontana


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Vittorio Emanuele II

Torino, 14 marzo 1820. Palazzo Carignano. Lo storico palazzo che ospiterà decenni dopo il primo Parlamento dell’Italia Unita ora ospita solamente i Principi di Carignano, dei quali è residenza. Il piccolo Vittorio Emanuele di Savoia nasce in una delle sue tante stanze da Maria Teresa di Toscana, come primogenito di Carlo Alberto di Savoia, già secondo in linea di successione al trono. Il principino nasce nel vero pieno dei primi moti liberali 1820-21, di cui prenderà parte, pur complessamente, anche suo padre, filo rosso, o meglio blu, che segnerà la vita di entrambi.

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placca "Qui nacque Vittorio Emanuele" a Palazzo Carignano, Torino.

Da allora ad oggi sono passati esattamente due secoli ma oggi non ricordiamo solo un sospiro di sollievo per una successione reale ch’era stata piuttosto travagliata nei decenni precedenti, ma una vita che si dimostrerà molto più importante e non solo per Casa Savoia, ma anche per un qualcosa che deve ancora nascere: la nostra Italia.

Intanto, solo un anno dopo la sua nascita, il padre Carlo Alberto sarà già chiamato ad assumere posizioni di grande responsabilità in seguito all’abdicazione del Re Vittorio Emanuele I di Savoia, sofferente dei moti liberali che vorrebbero limitare i suoi poteri assoluti (dal latino ab soluti, cioè sciolti, da ogni vincolo, figuriamoci imposto). Al Re questo ricorda assai troppo la retorica della rivoluzione francese, che pensava di aver sconfitto con la Restaurazione nel 1814, e di Napoleone, che lo aveva costretto da giovane all’“esilio” nella “lontana” Sardegna, e che tanto aveva combattuto: il Re “Tenacissimo” non riesce a più a reggere.

E’ l’11 marzo 1821 e prima di lasciare Palazzo Reale, con la carrozza che lo attende davanti ai cancelli, Re Vittorio Emanuele si porta negli appartamenti della Principessa di Carignano per poter vedere il suo omonimo nipotino, che a breve farà gli anni. Accarezzandolo, sussurra “Speriamo ch’egli, più fortunato di me, riesca a fare la felicità di questo Regno[1].

Il motivo della frettolosa abdicazione è che non risulta davvero più possibile rimandare o rifiutarsi di concedere una costituzione, per cui se quella sera stessa una costituzione sarà emanata, seppure con riserva di approvazione regia, sarà in nome del Principe Carlo Alberto, nominato Reggente del Regno in seguito all’abdicazione a causa della lontananza del vero erede Carlo Felice di Savoia, che al momento dell’abdicazione si trova all’estero.

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Carlo Alberto di Savoia

Apprese le novità il nuovo Re, Carlo Felice, è furioso. Tornato a Torino revoca le decisioni del cugino, abolendo l’effimera costituzione per restaurare l’assolutismo, e lo spedisce dapprima a Novara, per una settimana, e poi direttamente a Firenze, capitale del Granducato di Toscana, fuori dai confini sabaudi, ospite di Ferdinando III d’Asburgo-Lorena, fratello della madre del piccolo Vittorio Emanuele, che segue la famiglia in questa sorta d’esilio; qui viene rigorosamente e militarescamente educato da diversi rigidi precettori.


Intanto il padre Carlo Alberto, rinnegando il passato e dando prova di fedeltà all’assolutismo sabaudo, viene richiamato alla Corte di Torino, dove nel 1831 muore il Re. Carlo Felice si spegne pochi giorni dopo aver detto aver detto, riferendosi a Carlo Alberto, “ecco il mio erede e successore, sono sicuro che farà il bene dei suoi sudditi”. Carlo Alberto è lì a baciargli la mano in segno di rispetto e obbedienza prima dell’ultimo respiro. Anche il diritto dinastico è chiaro, la linea principale dei Savoia si spegne insieme a Carlo Felice e con lui, si vedrà, anche il suo tanto caro assolutismo.

Il ramo cadetto dei Carignano giunge al trono col giuramento dell’Armata Sarda al nuovo Re, Carlo Alberto, nella Piazza d’Armi del Palazzo Reale di Torino.

 Anche il Principe Vittorio Emanuele è tornato a Torino, ora è primo in linea di successione. Continua qui la sua rigida educazione, di cui si libererà con sollievo solo al compimento dei diciotto anni, quando, col grado di colonello ed il comando di un reggimento, ha inizio la sua vita militare.

Del carattere del Principe è infatti sicura una cosa, se non gli piacciono i vecchi nobili ed i politici o l’atteggiamento saccente dei precettori, sicuramente si sente a suo agio quando indossa la divisa ed è tra i suoi soldati; dirà infatti poi “non ho altra intenzione che quella di essere il primo soldato dell’indipendenza italiana

Ma questa è un’affermazione che farà solo diversi anni dopo essere diventato Re, quando saranno più chiari i concetti di “Risorgimento” e “Italia”, che inizieranno ad essere spiegati sempre meglio dal padre Carlo Alberto, che durante il suo Regno gli spianerà la via facendosi portatore di quell’intimo istinto che Casa Savoia aveva maturato nei secoli, dallo spostamento della capitale da oltralpe, Chambery, nella piemontese Torino, con la proiezione del futuro dei Savoia verso la penisola, e con lei la sua indipendenza.

Non solo, Carlo Alberto ritroverà anche le ispirazioni giovanili, che tanto aveva dovuto rinnegare per rientrare nel favore del cugino Carlo Felice, inorgoglito dai moti liberali che stanno per riprendere piede in tutta la penisola e oltre: l’assolutismo è in ginocchio.

Il 1848 è un anno emblematico per entrambe queste aspirazioni.

In febbraio il Re riunisce un Consiglio di Stato straordinario e l’8 emana per editto la nuova carta costituzionale. Quello che verrà chiamato d’ora in poi “Statuto Albertino” è “legge fondamentale, perpetua e irrevocabile, della monarchia” in vigore dalla firma reale del 4 marzo, che diverrà infatti Festa dello Statuto, della democrazia e della monarchia, fino al 1946. Il testo viene immediatamente affisso per le strade della capitale. Torino risponde con imponenti celebrazioni in onore del Re.

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intestazione dello Statuto Albertino

Solo due settimane dopo, il 23 marzo, il Sovrano dichiara guerra all’Impero Austriaco, smosso dalle Cinque Giornate di Milano. Prima di partire, adotta come bandiera di guerra il Tricolore Italiano, con al centro lo Stemma di Casa Savoia: sarà per un secolo la futura bandiera italiana.

Ha inizio quella che sarà la Prima Guerra d’Indipendenza, ma le cose non vanno bene. Carlo Alberto, che pure si distingue in prima persona sul campo, è sconfitto. Il Re che tentò di fare l’Italia abdica.

Scosso da questo fardello, firma l’atto di abdicazione la sera stessa della disfatta di Novara. Il Sovrano è difatti convinto che con suo figlio il nemico sarà più accondiscendente, quindi lascia il campo di battaglia col titolo di Conte di Barge.

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litografia dell'abdicazione di Carlo Alberto: il Re presenta alle truppe il nuovo Re Vittorio Emanuele II

Il giovane Principe assume i doveri reali e non c’è tempo di formalismi; Vittorio Emanuele non può neanche giurare che arriva il suo primo compito ufficiale, incontrarsi col Maresciallo Radetzky, comandante in capo austriaco, per discutere dell’armistizio.

Il nuovo Re riesce effettivamente ad ottenere clausole più vantaggiose rispetto al padre. Quel giovane Principe di Carignano che ora è Vittorio Emanuele II si oppone anche alle continue e maliziose richieste di Radetzky di abrogare lo Statuto Albertino, rinnovando i principi liberali ispiratori dell’azione paterna. Questo forte senso del dovere, che per molti aveva oltrepassato anche il suo credo personale, gli vale l’appellativo di Re Galantuomo.

Una volta a Torino, rinnova con forza anche l’aspirazione italiana del padre. Il tempo è scorso, alla Presidenza del Consiglio c’è un nobile possidente terriero piemontese, Camillo Benso, Conte di Cavour, che ha già imbastito alleanze e procurato alla Sardegna una certa attenzione internazionale, soprattutto dopo la Guerra di Crimea del 1853.

10 gennaio 1859 il Vittorio Emanuele si presenta di fronte al Parlamento e pronuncia le seguenti storiche parole: 

“Il nostro paese, piccolo per territorio, acquistò credito nei consigli d'Europa perché grande per le Idee che rappresenta, per le simpatie che esso ispira. Questa condizione non è scevra di pericoli, giacché, nel mentre rispettiamo i trattati, non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d'Italia si leva verso di Noi!”

Al discorso segue la presa del comando effettivo delle truppe da parte di Vittorio Emanuele, assestatosi sul confine del Ticino. L’Austria, sentendosi minacciata, risponde al Re con un ultimatum, pena la guerra. Ma era proprio questo ciò che il Conte di Cavour stava aspettando. Bastò ignorare l’Austria perché questa dichiarasse guerra, innescando la protezione intessuta con la Francia. Iniziava così la Seconda Guerra d’Indipendenza.

Dal proclama reale del 29 aprile 1859:

“Così essa [l’Austria] rompe oggi violentemente quei Trattati che non ha rispettato mai. Così oggi è intero il diritto della Nazione, ed io posso in piena coscienza sciogliere il voto fatto sulla tomba del mio magnanimo Genitore [Re Carlo Alberto]! Impugnando le armi per difendere il mio trono, la libertà dei miei popoli, l’onore del nome italiano, io combatto pel diritto di tutta la Nazione”

Decisiva è per gli italiani la Battaglia di San Martino, dove il Re, prima di lanciarsi in battaglia, arringa le sue truppe al grido “Fieuj, o i pioma San Martin o j'àuti an fan fé San Martin a noi!”, ossia “Ragazzi, o prendiamo San Martino o gli altri fanno fare San Martino a noi!”, che in piemontese significa “sloggiare”. Con Solferino, dove si era nel mentre distinto Napoleone III, la guerra è vinta. Il Regno di Sardegna ottiene finalmente la Lombardia, e, nel mentre, molte altre province italiane le si univano per plebiscito.

Intanto, una voce si leva dallo stuolo dei combattenti dell’Armata Sarda, è l’annuncio del Capitano dei Cacciatori delle Alpi Giuseppe Garibaldi: “Sovvenitevi che il programma è: Italia e Vittorio Emanuele”.

Queste le ultime parole dell’eroe prima di cimentarsi nella Spedizione dei Mille. Cavour resterà sempre scettico, fino all’ultimo, mentre non si conosce la posizione finale del Re in merito, anche se pare che i due fossero amici e si stimassero a vicenda, inducendo l’eroe nizzardo ad agire anche senza il consenso del governo[2].

Tant’è che, sbarcato in Sicilia e presa l’isola alle truppe borboniche dell’Esercito delle Due Sicilie, Garibaldi dichiara, per primo nella storia, “nel nome di Vittorio Emanuele, Re d’Italia”, per poi continuare verso la penisola.

Nel mentre Cavour, conscio dei pericoli della spedizione garibaldina, mette in marcia l’Armata Sarda verso sud, attraversando e annettendo frettolosamente alcune regioni pontificie, prima di ricongiungersi con i garibaldini a Teano. Qui Re Vittorio Emanuele II e Garibaldi si incontrano, scrivendo la storia.

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L'incontro tra Giuseppe Garibaldi e Vittorio Emanuele II. Affresco dipinto da Pietro Aldi nel 1886 nella sala del Palazzo Pubblico di Siena.

Cingono insieme l’assedio dell’ultima fortezza duosiciliana, Gaeta, dove ha riparato Re Francesco II di Borbone, e con la vittoria il Re ottiene la sovranità su tutto il Sud Italia ed entra trionfalmente a Napoli.

Imminente il sogno coltivato dal padre diventa realtà. Il 17 marzo 1861 il Parlamento del Regno di Sardegna si riunisce a Torino. Mancherebbero ancora all’appello Roma col Lazio, Venezia, Trento, Trieste e l’Istria, ma il vento patriottico è troppo forte per essere fermato e viene proclamata la nascita del Regno d’Italia.

Vittorio Emanuele II assume per sé e per i suoi successori il titolo di Re d'Italia. Gli atti del governo e ogni altro atto che debba essere intitolato” sarà fatto nel nome di “Vittorio Emanuele II, per Grazia di Dio e Volontà della Nazione, Re d’Italia[3].
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Ancora oggi, questa data viene celebrata come festa dell’Unità d’Italia.

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 Proclamazione del Regno d'Italia nel Parlamento di Sardegna. Torino, Museo del Risorgimento.

Ad ogni modo i sopracitati territori ancora mancano e Vittorio Emanuele non perde tempo. E’ il 1866 e il Re è appena tornato negli appartamenti dove aveva vissuto come ospite da bambino, quelli di Palazzo Pitti, nella nuova capitale, Firenze, che già li lascia per il fronte.

Austria e Prussia stanno vivendo un rapporto travagliato, e quello che adesso è il Governo Italiano vuole, e deve, sfruttarlo. Allo scoppio della guerra il neonato Regio Esercito Italiano affianca lo sforzo bellico prussiano in una Terza Guerra d’Indipendenza contro l’Austria e, nonostante i gravi colpi sofferti a Lissa e Custoza, il Regno ottiene il Veneto. L'Imperatore d'Austria, Francesco Giuseppe d'Asburgo, spedisce a Vittorio Emanuele la Corona Ferrea, simbolo dell'Italia dal medioevo. Viene esposta a Monza, dov'è ancora oggi.

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da notarsi il dettaglio della Corona Ferrea, affiancato alla Corona di Savoia. Ritratto del Re Vittorio Emanuele II conservato alla Venaria Reale.

Successivamente, la guerra franco-prussiana fa cadere dal trono il vecchio Imperatore Napoleone III, e con lui il Papa perde il più grande dei protettori. Vittorio Emanuele subirà la scomunica ma è venuta la volta di Roma. Il 20 settembre 1870 i bersaglieri irrompono dentro la Città Eterna da Porta Pia e spezzano il potere temporale del Pontefice Massimo. Roma diventa la capitale del Regno d’Italia; il commento del Re:

Con Roma capitale ho sciolto la mia promessa e coronato l'impresa che ventitré anni or sono veniva iniziata dal mio Magnanimo Genitore [Carlo Alberto]”[4].

Meno solennemente, quando gli eccitati Ministri Lanza e Sella gli presentano il risultato del plebiscito di Roma e Lazio, Vittorio Emanuele pare gli abbia risposto con ironia nel solito piemontese "Ch'a staga ciuto; am resta nen àut che tireme 'n colp ëd revòlver!; për lòn ch'am resta da vive a-i sarà nen da pijé." ossia  “state in silenzio; non mi resta altro che tirarmi un colpo di rivoltella! per il resto della mia vita non ci sarà niente più da prendere”.

Effettivamente il Re passerà gli ultimi anni in serenità e tranquillità, tra la sempre stretta vita di Corte e la più serena vita con la “Bela Rosin”, amante che dalla morte della moglie Maria Adelaide nel lontano 1855, gli è sempre stata a fianco. Il Re l’ha presa morganaticamente in sposa, nonché creata Contessa di Mirafiori e Fontanafredda. Passa con lei gran parte della vita di tutti giorni nella riservatezza, alternandosi con appassionate battute di caccia tra le residenze di campagna del Lazio.

Sarà proprio durante una di queste lunghe battute che nel dicembre del 1877 il Re, dormendo all’addiaccio, sarà colpito da un’umidità che gli si rivelerà fatale, consumandolo nei primi giorni del 1878.

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Vittorio Emanuele in tenuta da caccia

Il giorno in cui Re Vittorio Emanuele II spira riesce ad essere conscio fino all’ultimo istante, volendo morire “da Re”. Tirato su con forza su dei cuscini, buttatosi sulle spalle un giaccone da caccia, lascia sfilare davanti al suo capezzale tutti i dignitari della Corte, acommiatandosi come poteva.

Aveva già ricevuto i sacramenti, preferendo il suo Cappellano Militare alla cortesia del messo apostolico, e rimase quindi solo col figlio Umberto e sua moglie, a cui si aggiungerà anche il figlio avuto dalla Contessa di Mirafiori, Emanuele, che mai s’era incontrato col fratellastro, questi aveva sempre evitato di incontrarlo[5]. Alla nuova moglie non sarà invece concesso di entrare. Saranno questi gli ultimi momenti di vita del Sovrano.

Il pomeriggio del 9 gennaio 1878 il Re è morto.

Vittorio Emanuele avrebbe voluto essere sepolto nel natìo Piemonte, all’interno della Real Basilica di Superga, antica sede di sepolture sabaude, incluse quelle del padre Carlo Alberto, spentosi nell’esilio portoghese nel lontano 1849, senza poter veder compiersi il sogno risorgimentale. Ma il Comune di Roma ha altri progetti per il “Padre della Patria” e il nuovo Re, suo figlio Umberto, è favorevole.

In una delle più massicce dimostrazioni pubbliche dell’Italia Unita, il suo primo Re Vittorio Emanuele II viene tumulato al Pantheon di Roma, antichissimo monumento romano dedicato agli Dei, inaugurando una tradizione che noi ci auguriamo non spezzarsi anche per i suoi successori che ancora riposano fuori dal sacrario dei Re d’Italia.

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Pantheon, tomba del Re Vittorio Emanuele II

La morte del Re come vissuta dai personaggi del Libro Cuore di Edmondo De Amicis:

«...ottanta veli neri caddero, cento medaglie urtarono contro la cassa, e quello strepito sonoro e confuso, che rimescolò il sangue di tutti, fu come il suono di mille voci umane che dicessero tutte insieme: - Addio, buon re, prode re, leale re! Tu vivrai nel cuore del tuo popolo finché splenderà il sole sopra l'Italia.-»

Nel 1880, lo stesso comune di Roma bandiva un progetto per un’opera commemorativa al Re, ne sarebbe scaturito l’odierno Altare della Patria, o, per l’appunto, il Vittoriano di Roma, che sarà solennemente inaugurato solo nel 1911, alla presenza del nuovo Sovrano, suo omonimo nipote, Re Vittorio Emanuele III.

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da notarsi la statua centrale, monumento equestre di Vittorio Emanule II. Altare della Patria, nel cuore di Roma.



  1. S. Bertoldi, “Il Re che tentò di fare l’Italia”. Rizzoli, 2000. ISBN 88-17-86481-1
  2. F. Crispi, Scritti e discorsi politici di Francesco Crispi (1849-1890), 1890, Unione cooperative editrice.
  3. Atti del parlamento italiano, sessione del 1861, discussioni della Camera dei Deputati, Volume 2, Tip. E. Botta, Torino, 1861, p.562.
  4.  P. Vercesi, L'Italia in prima pagina: i giornalisti che hanno fatto la storia. 2008, Francesco Brioschi Editore, 2008.
  5.  I. Montanelli, L'Italia dei notabili. Rizzoli Editore, Milano, 1973.