1861-2021 IL CENTOSESSANTESIMO DELLA MORTE DEL CONTE DI CAVOUR

di Gianluigi Chiaserotti

Cade nel corrente anno il centosessantesimo anniversario della morte di Camillo Benso, Conte di Cavour, il vero artefice, con pazienza e diplomazia, dell’Unità d’Italia.

Il Conte di Cavour nacque il 10 agosto 1810 a Torino, allora capoluogo di un dipartimento dell’Impero napoleonico.

Il Principe Camillo Borghese (1775-1832), Duca di Guastalla e coniuge di Paolina (Maria Paola) Bonaparte (1780-1825) [sorella di Napoleone I (1769 -1821)], governatore dei dipartimenti francesi in Italia, tenne (per procura) a battesimo il Nostro e gli diede il nome. Infatti il Marchese Michele Benso (1781-1850), padre del Cavour, era ciambellano del Principe stesso.

La famiglia Benso era originaria di Chieri ed avevano ottenuto il titolo marchionale ai tempi del Re di Sardegna Carlo Emanuele III (1701-1773) con Michele Antonio, signore di Santena.

Camillo di Cavour aveva come madre, la ginevrina Adele di Sellon (1780-1846), la quale, nell’ottobre 1811, abiurò al calvinismo per farsi cattolica. La famiglia, però, era imparentata con l’aristocrazia protestante e liberale di Ginevra, ove ebbe cari specialmente i De la Rive, mentre l’ava paterna, Filippina di Sales, della famiglia di San Francesco di Sales (1567-1622), si allacciava all’alta società della Savoia. Inoltre due zie materne erano rispettivamente sposate una con il Conte d’Auzers e l’altra con il Duca Clermont-Tonnerre e avvicinavano il Nostro al patriziato legittimista francese.

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Codesti variegati influssi concorsero a temprare l’animo e la mente del Cavour. Ma egli fu prima di tutto figlio del Piemonte, e da questa terra di nobili sabaudi e di soldati trasse il necessario impulso alle sue idealità politiche nazionali.

Suo primo maestro fu l’abate Frézet, degno e colto sacerdote, di cui conservò sempre un particolare e gradito ricordo.

Quindi dal 1820 al 1826, Camillo frequentò l’Accademia Militare, e, nel 1824, fu paggio del Principe Carlo Alberto di Savoia-Carignano (1798-1849), futuro Re di Sardegna.

Il Nostro studiò le scienze esatte e la matematica, che era insegnata dal matematico ed astronomo Giovanni Antonio Amedeo Plana (1781-1864),  ma poco profitto nelle discipline letterarie, le quali nell’Accademia erano ritenute di secondaria importanza e meno si confacevano, del resto, all’indole del di lui ingegno. Ma la vita militare non era per il Conte di Cavour, e quindi (12 novembre 1831), ottenuto il permesso della famiglia, chiese ed ottenne le dimissioni dall’Accademia.

Deposta l’uniforme, il Benso iniziò ad occuparsi di agricoltura e delle scienze economiche e sociali. Fu in questo periodo della sua vita che, allontanate le rivoluzionarie idee di gioventù, il Nostro si avvicinò a quel liberalismo pratico che professò poi con maggiore risolutezza e con più profonda consapevolezza, ma che era, in sostanza, sin d’allora, nello spirito di tutta (o quasi), l’aristocrazia piemontese.

Il Conte di Cavour si fece conoscere (nel 1834) con la pubblicazione di un “Extrait” relativo all’inchiesta inglese sulla tassa dei poveri e come combattere la miseria, difendendo il principio della “carità legale” che deve integrare e non sopprimere quella privata.

Il Cavour, quindi, viaggiò molto in Europa con il recondito fine di apprezzare idee e conoscere persone.

Nel 1835, rientrò a Torino ove il padre era stato nominato Prefetto di Polizia, e Camillo si assunse l’onere di amministrare i beni di famiglia in quel di Leri, nel vercellese. Vi rimase sino al 1848.

Il Piemonte era allora un paese ad economia tendenzialmente agricola, ma proprietari e fittavoli, chiusi nei vecchissimi sistemi patriarcali, ripugnavano a quelle applicazioni scientifiche che erano state introdotte, e con profitto, nel Regno Unito di Gran Bretagna ed Irlanda del Nord, nella Francia, nella Confederazione Elvetica, ed anche, in parte, nel Granducato di Toscana. Certamente l’attività imprenditoriale del Cavour gli permise di conoscere l’intima struttura economico e finanziaria del paese, di cui apprese quindi anche ad inquadrare i problemi politici in una limpida e chiara visione della realtà.

Fu in questa realtà che il Conte di Cavour, continuando sempre ad osservare e studiare il liberalismo inglese [a lui è dovuta la fondazione in Torino della “Société du Whist” (1841), circolo aristocratico di giuoco e di conversazione sul modello dei “clubs” di Londra e di Parigi], per consiglio del Duca di Broglie ed a proposito del libro del Conte Ilarione Petitti sulle strade ferrate, pubblicò nella “Revue nouvelle”  di Parigi una “Étude des chemins de fer en Italie” (maggio 1846), in cui il problema delle ferrovie era trattato non solo sotto l’aspetto degli interessi materiali, ma anche e soprattutto sotto quello delle idealità politiche e nazionali.

Codesti studi potevano far apprezzare il Nostro in certe sfere, ma non conquistargli l’anima del popolo. Suo padre, come vicario, aveva nemici che lo accusavano persino di affarismo. Il 17 giugno 1847 il Marchese Michele si dimise. Il 29 ottobre il Re Carlo Alberto, gettandosi sulla strada aperta dal Pontefice, il Beato Pio IX [Giovanni Battista Mastai Ferretti (nato nel 1792) 1846-1878], concesse alcune riforme, tra cui una moderata libertà di stampa. Così, il 15 dicembre, apparve il “Risorgimento”, giornale quotidiano, di cui il Cavour fu direttore, redattore-capo e gerente. La vocazione alla vita pubblica, che di già a vent’anni gli faceva sognare di svegliarsi un giorno Primo ministro del Regno d’Italia, s’era venuta in lui consolidando con il tempo e con gli studi. Gentiluomo di campagna, sicuro di sé, aperto alle voci della sua terra subalpina, ma poco o nulla sensibile ai ricordi classici ch’erano e sono tanta parte della coscienza della nazione, non si lasciava abbagliare dalle fulgide visioni di Vincenzo Gioberti (1801-1852) e non ammetteva affatto con lui “che nulla potesse farsi senza il Papa”. Piuttosto il Cavour consentiva con le idee dello storico e politico Cesare Balbo (1789-1853), il quale, attraverso le memorie del 1821, meglio rispondevano alle tradizioni secolari piemontesi. Ma mentre quest’ultimo dichiarava di mirare solo all’indipendenza, Camillo di Cavour poneva come condizione di questa libertà, anzi di tutte le libertà, economiche, religiose e politiche, compatibili con l’ordine pubblico.

Il 7 gennaio 1848 in un convegno di giornalisti, provocato dalle agitazioni di Genova, il Nostro propose che si chiedesse la costituzione al Re, e fu appoggiato da altri influenti dell’epoca, ma non dai democratici sospettosi che egli mirasse a prendere loro la mano.

Proclamato lo Statuto (4 marzo), il Cavour ne rivendicò la perfettibilità per consenso di Principe e di popolo e propose egli stesso il Senato elettivo e l’aperta dichiarazione dei culti. Nelle discussioni per la legge elettorale si adoperò affinché il diritto di voto fosse concesso a tutti gli individui capaci di esprimere un consapevole proposito politico.

Nelle elezioni suppletive del 26 giugno 1848, il Conte di Cavour fu eletto in ben quattro collegi elettorali, ma optò per quello di Torino. Il 4 luglio, prese, per la prima volta, la parola alla Camera del Parlamento Subalpino.

Da quel momento la vita di Camillo Benso Conte di Cavour nuovamente cambiò. Finalmente era immerso nella vita pubblica del suo Piemonte.

Da questa mutazione pubblica, si poteva benissimo comprendere che presto sarebbe divenuto il padrone. Libero scambista, convinto che il Piemonte dovesse sempre più e meglio confondere la propria vita economica con quella delle potenze occidentali, il Nostro, da Ministro dell’Agricoltura, sottoscrisse un trattato di commercio e di navigazione con la Francia (5 novembre 1850), poi uno con il Belgio (24 gennaio 1851), ed un terzo con l’Inghilterra (27 febbraio 1851).

Tutto il decennio successivo è storia più che nota. Fu, da parte del Cavour, un tessere, giorno per giorno, momento per momento, occasione per occasione, le maglie diplomatiche per l’unificazione dell’Italia sotto la fulgida guida del Re di Sardegna, Vittorio Emanuele II (1820-1878).

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Le occasioni ed i momenti fondamentali furono, senza dubbio: la guerra di Crimea (ottobre 1853-gennaio 1856) e quindi l’appoggio piemontese alla Francia ed al Regno Unito di Gran Bretagna ed Irlanda del Nord contro la Russia; il conseguente congresso (25 febbraio/16 aprile 1856) e trattato (30 marzo 1856) di Parigi, che sanzionò la sconfitta russa nella guerra di Crimea, ed ove il Conte di Cavour pose abilmente all’attenzione delle potenze europee la questione italiana, ed, infine, gli accordi di Plombières (les-Bains), conclusi il 20 luglio 1858 con l’Imperatore dei francesi Napoleone III (1808-1873), i quali prevedevano l’aiuto della Francia al Piemonte per muovere guerra all’Austria, con la cessione di Nizza e della Savoia alla Francia medesima.

Ed il 17 marzo 1861, nella nobile e suggestiva cornice dell’aula del Parlamento Subalpino di Palazzo Carignano di Torino, fu proclamato il Regno d’Italia.

La rivoluzione aveva dato forza alla diplomazia, ma, senza quest’ultima, la rivoluzione non avrebbe nulla concluso. Però codesto spirito rivoluzionario, imbaldanzito dalla fortuna, era divenuto l’anima di una partito detto “di azione” che, insofferente di indugi, pretendeva di imporsi allo Stato e di trascinarlo alle più arrischiate avventure.

L’Italia era unificata, ma senza la capitale a Roma l’opera non poteva, non doveva essere completa. Infatti il 25 marzo 1861, il deputato di Bologna Rodolfo Audinot (1814-1874) tenne alla Camera un vibrante discorso sulla questione romana, che dette lo spunto al Cavour per le sue celebri dichiarazioni e per l’emanazione dell’ordine del giorno con il quale Roma era proclamata capitale d’Italia [“(…) non ci sarebbe stata l’Italia unita se Roma non fosse stata la Capitale”].

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Purtroppo l’improvvisa morte (6 giugno 1861) interruppe la singolare opera del Conte di Cavour.

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Sin dalla prima giovinezza, come abbiamo visto, il Cavour aveva avuto l’ambizione di essere un grande ministro di un paese costituzionale all’inglese. La fede nella libertà, patrimonio delle aristocrazie, e la persuasione ch’essa potesse poggiare soltanto sugli ordini rappresentativi, sono le sue caratteristiche e costituiscono l’unità mirabile della sua vita.

Nel 1861, il Cavour avrebbe potuto ripetere ciò che nel 1852 aveva detto alla Camera: “Dovessi rinunziare a tutti i miei amici d’infanzia, dovessi vedere i miei conoscenti più intimi trasformarsi in nemici accaniti, non fallirei al dover mio, non abbandonerei mai i principi di libertà ai quali ho votato me medesimo, del cui sviluppo ho fatto il mio compito ed a cui per tutta la vita sono stato fedele”.

Piemontese anzitutto, mirò a realizzare, memore dell’esperienza del 1848, quel Regno sabaudo dell’Alta Italia che era stato l’ambizione ed il tormento del Re Carlo Alberto. Ma quando Cavour si accorse che si poteva ottenere di più, non esitò a farsi italiano ed a mettersi risolutamente alla testa del movimento unitario.

Il Cavour ebbe quella visone esatta della realtà, anzi di tutte le realtà, sino agli estremi limiti del possibile; e tutto il possibile volle conseguire sfruttando le circostanze con sommo ingegno, con ferrea tenacia, con calda passione di artista della politica.

Qui è la sua grandezza e la sua originalità.

Soprattutto fu un grande diplomatico, ma le risorse della vecchia diplomazia in lui si unirono con l’impeto del rivoluzionario e l’audacia del giocatore d’azzardo.

Nessuno puo’ dire che cosa avrebbe fatto per compiere l’unità politica della Nazione, al fine di risolvere i problemi ideali che il Risorgimento implicava, per dare il soffio di una vita sua originale al rinnovato popolo d’Italia. Il Conte di Cavour, come l’Ammiraglio Horatio Nelson (1758-1805), morì nella gloria di un trionfo che pochi anni prima era pura follia sperare.

 

Bibliografia

 

AA.VV.

 “Enciclopedia Biografica Universale”, Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani (degli Alfieri), Roma 2007, voce “Camillo Benso conte di Cavour”, vol. 4, pagg. 450-461, 

Francesco COGNASSO, “Cavour”, dall’Oglio, editore – Milano 1974, passim,