Niccolò Gaspari
La serie televisiva tratta dal romanzo M – Il figlio del secolo di Antonio Scurati ha riportato di recente l’attenzione dell’opinione pubblica italiana (ma anche internazionale) sulle vicende riguardanti il Ventennio fascista. Numerosi sono i personaggi presentati dalla serie, la quale ha saputo fornire agli spettatori un punto di vista certamente appassionante e che potremmo definire inedito della salita al potere di Benito Mussolini e dell’instaurazione del suo regime. Le prime puntate, infatti, ci calano nella Milano del 1919, in una città politicamente effervescente, che sta attraversando il periodo del cosiddetto Biennio Rosso. Il ritmo della narrazione è incalzante, trasuda instabilità, come il periodo storico che vuole raccontare. Mussolini non è altro, per ora, che l’insignificante direttore de Il Popolo d’Italia, giornale con sede in Via Paolo da Cannobio, subito dietro Piazza Duomo. Ma è tra queste strade che si accenderà la fiamma che, brillante e spietata, brucerà infine con una tale intensità da ustionare vent’anni dopo l'intero Paese.
Un carattere quasi romantico avvolge le vicende, che si concluderanno, alla fine di questa prima stagione, con il discorso del 3 gennaio del 1925. L’epicità della Storia viene esagerata e, forse, scade troppo spesso nel parodistico, soprattutto per quanto riguarda alcuni personaggi secondari; il racconto, tuttavia, riesce a conservare la gravità degli eventi e le emozioni di alcuni dei personaggi. Il Duce trova in Luca Marinelli un validissimo interprete, che ha saputo rappresentare il dittatore in tutta la sua complessità caratteriale e politica, che con la sua ombra sembra coprire e nascondere tutto ciò che lo circonda. È forse proprio questo uno dei problemi della serie diretta da Joe Wright.
La figura di Mussolini è totalizzante e la versione dei fatti storici è rappresentata per come la visse il Duce; il suo ruolo di narratore gli permette di infrangere spesso la quarta parete e il pubblico, così, è idealmente invitato ad instaurare un dialogo con il temerario politico romagnolo, ascoltando le sue motivazioni e le sue opinioni riguardo agli altri protagonisti della storia, che siano suoi complici o nemici. Ma tutto ciò porta il pubblico, inevitabilmente, a deformare la percezione storica di quel periodo così travagliato e complesso della nostra storia nazionale. Molte figure rimangono solo una parodia di ciò che furono veramente, frutto di una scelta registica che sembra voler inquadrare le vicende dal solo punto di vista, appunto, del Duce, riducendo tutto il resto a uno spettacolo che finisce per essere grottesco e veramente troppo semplificato. I Ras si trasformano nei “cani da guerra” che il solo Mussolini riusciva a tenere al guinzaglio; i socialisti diventano una massa silenziosa e quasi inoffensiva, tranne Matteotti, a cui si dà ampio spazio allo scopo di contrapporre la sua figura eroica a quella di Mussolini; e arrivando all’argomento di questo articolo, tra i personaggi che sembrano perdere di più, c’è anche Vittorio Emanuele III, Re d’Italia dal 1900 al 1946.

Si tratta di un attore storico spesso trascurato dalla nostra storiografia nazionale, e che invece meriterebbe un ampio approfondimento della propria figura, se non altro per evitare che questa venga trattata solo ed esclusivamente da appassionati o studiosi eccessivamente legati all’Istituto monarchico.
Foto: Giacomo Matteotti da https://liberliber.it/autori/autori-m/giacomo-matteotti/
La sua figura, in realtà, non può rivelarsi priva di interesse per uno storico. Uomo dal cuore freddo e dalla testa chiara, con un animo impenetrabile, che non sembra avere miti o sogni; scettico fino quasi al completo pessimismo nei confronti degli uomini, delle loro vicende e della loro natura, di cui si dimostra, tuttavia, un fine conoscitore. Nella realtà è un grande lavoratore, consapevole dei suoi doveri, della posizione che occupa e del peso della Corona che porta, da cui sovente, nel corso della sua vita, si sentirà schiacciato. Una rigida educazione unita alle sue deformazioni fisiche lo porteranno ad essere un Sovrano quasi invisibile agli occhi del suo popolo, riluttante ad eccedere nello sfarzo e nel lusso che avevano caratterizzato il Regno di Umberto I e della Regina Margherita.

Nella serie vengono chiaramente sfruttate le caratteristiche che già all’epoca lo rendevano una figura singolare nel suo genere. Il Re era la sfortunata sintesi delle politiche matrimoniali dei suoi ascendenti, tutti cugini primi tra loro: alto poco più di un metro e mezzo a causa di un’atrofia alle gambe, con un naso aquilino e un mento rientrante, Vittorio Emanuele presentava un fisico decisamente sgraziato. L’esatto contrario del prototipo di Re dell’immaginario collettivo europeo, e cioè quello di un Sovrano attraente e prestante, capace, al bisogno, di guidare a cavallo l’esercito in battaglia. Soffrì sempre il paragone con i bei cugini del ramo Aosta e, verso la fine del suo Regno, con suo figlio Umberto. Il tutto è suggellato da una rappresentazione spesso ridicola del Sovrano, che prevede, ad esempio, il mostrarlo costantemente seduto su un trono enorme (nella fattispecie sembrerebbe essere una ricostruzione di quello del Regno preunitario di Napoli), in evidente contrasto con la sua bassa statura, e, quando in piedi, sempre sostenuto da dei tutori alle gambe, che in realtà utilizzò solo per un breve periodo durante la sua giovinezza. Come se non bastasse, appare come un ingenuo, un uomo poco informato e incline a sorprendersi facilmente. Nella realtà dei fatti fu probabilmente l’uomo più informato della Nazione: nella sua routine, che si potrebbe definire kantiana vista la sua estrema regolarità, la prima parte della giornata era sempre dedicata alla lettura dei giornali e dei dispacci diplomatici e amministrativi. Le successive fasi della giornata del Re possono essere ricostruite con estrema precisione grazie alle testimonianze dei suoi aiutanti di campo (Brusati, Cittadini, Puntoni, solo per citarne alcuni), le quali sono numerose e rivelano un Sovrano dai gusti semplici e con un alto senso del dovere verso il proprio Paese. La sua esistenza passava all’insegna di colloqui e ricevimenti con diplomatici e politici, nonché della revisione e della firma dei disegni di legge presentati dal Parlamento e dal Governo. Il Quirinale, privato quasi di ogni sfarzo, veniva trattato alla stregua di un ufficio, mentre la vera residenza del Re era Villa Ada, rinominata in seguito Villa Savoia, poco fuori dalla Capitale. Era qui che il Sovrano si concedeva l’unica pausa della giornata, dove rientrava per un pranzo, spesso frugale, in compagnia della Regina Elena. Fu un Re “borghese”, come si definì lui stesso, “primo burocrate dello Stato”, e che non perse occasione per ribadire la divisione della sua vita istituzionale da quella privata. Nonostante questa apparente invisibilità, questo Re caustico e sprezzante manterrà un ruolo politico centrale nelle grandi decisioni della Nazione per tutta la durata del suo Regno.

Foto: la Regina Elena e Re Vittorio Emanuele III
da https://it.m.wikipedia.org/wiki/File:Vittorio_Emanuele_III_di_Savoia_ed_Elena_di_Montenegro.jpg
Ricostruire la figura del Re e il suo vero operato è un lavoro certamente difficile, che rasenta quasi l’impossibile. Le fonti più preziose (diari, memorie e verbali) di fatto non esistono: la vera influenza del Sovrano, infatti, si esercitava nei colloqui privati che teneva con i ministri nelle stanze del Quirinale, di cui non sempre abbiamo testimonianze o resoconti. Sopperiamo in parte a queste mancanze con le relazioni che il Re intratteneva con i vari diplomatici delle altre Nazioni di stanza in Italia, i quali spesso danno un ritratto del Sovrano che non emerge nella serie televisiva. Camille Barrère, Ambasciatore francese in Italia dal 1897 al 1924, descrisse Vittorio Emanuele III come “un sovrano sagace, oculato e poco incline a seguire alla cieca i sentieri battuti”. Oltre a descriverne la personalità e le presunte intenzioni, questi rapporti ci permettono di seguire l’evoluzione politica del Re nell’arco di tutto il suo Regno: da un primo periodo decisamente liberale, coincidente grossomodo con l’era giolittiana e le riforme di inizio Novecento, a quello di tendenza più autoritaria, che iniziò con il “radioso maggio” del 1915. Il Re, pur rispettando formalmente lo Statuto, comincerà a fare largo uso delle prerogative della Corona per forzare le situazioni durante le crisi politiche e riportare al più presto il Paese a condizioni stabili di governo. Rimarrà sempre infastidito dalla litigiosità dell’ambiente politico e dal dover prendere decisioni nette.

Sarà con enormi difficoltà, infatti, che Vittorio Emanuele si deciderà a segnare le sorti dell’Italia per ben tre volte: la prima volta nel 1915, con l’entrata dell’Italia nella Grande Guerra; la seconda nel 1922, con la nomina di Mussolini a Primo Ministro; infine, la terza volta, nel 1943, con la destituzione e l’arresto del dittatore. La serie televisiva prova, invano, a mettere in luce questo suo carattere chiuso ed enigmatico, fraintendendo o tralasciando volutamente le ragioni del perché il Sovrano agisca in determinati modi.
Foto: Luigi Facta
da https://it.m.wikipedia.org/wiki/File:FACTA_Luigi.gif
La scena più importante riguardo al Re e che può chiarire come la sua rappresentazione risulti troppo semplificata è quella della mancata firma del decreto di stato d’assedio preparato dal Governo Facta per tentare di reprimere con il Regio Esercito le azioni coordinate delle formazioni fasciste durante gli eventi della marcia su Roma di fine ottobre 1922.

Come dice Mussolini verso la fine della quarta puntata, ancora ad oggi non si sa di preciso cosa spinse il Re a non firmare lo stato d’assedio. Varie, secondo la storiografia, sono le ipotesi che si possono avanzare: dal timore del Re di usare la forza per reprimere un movimento che esprimeva alcuni dei grandi malesseri di parte della società del Paese, che gli riportò di certo alla mente il tragico epilogo del Regno di suo padre; fino alle motivazioni più personali, ossia la paura di essere deposto e sostituito dal cugino Emanuele Filiberto, simpatizzante del movimento fascista e in contatto con gli esponenti monarchici del partito mussoliniano, come il quadrumviro De Vecchi. Va comunque precisato che, pur vedendo di buon occhio alcuni punti ideologici del movimento fascista (un marcato anticlericalismo, la messa in discussione della pace di Versailles e il valore del sacrificio a beneficio della Patria) Vittorio Emanuele III, alla nomina di Mussolini come Primo Ministro, non aveva alcuna simpatia per il fascismo: il suo essere, secondo le parole del Re, un movimento di “civili mascherati da soldati” lo infastidiva e non poteva che guardare con sospetto all’originaria natura repubblicana del fascismo. Inoltre, il sostanziale rifiuto di Mussolini dei valori liberali e parlamentari, a cui il Re si era mostrato fedele fin dal suo avvento al Trono, creava una distanza ideologica abbastanza forte. Le disposizioni prese dal Sovrano per difendere la Capitale e salvaguardare la capacità decisionale del Parlamento e del Quirinale nelle ore serali del 27 ottobre, infatti, non possono che confermare il suo sincero attaccamento alle istituzioni liberali e alla loro difesa
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C’è da chiedersi, dunque, perché la mattina del 28 ottobre 1922 il Re annullò de facto le disposizioni preparate dal Governo Facta. È probabile che Vittorio Emanuele, come aveva già avuto modo di anticipare a Facta in un telegramma del 26 ottobre, scelse definitivamente di scartare la soluzione violenta. Il solo efficace mezzo per evitare scosse pericolose sarebbe stato quello di associare il fascismo al governo della Nazione per vie legali, escludendo comunque un esecutivo guidato da Mussolini, ma affidato invece al conservatore Antonio Salandra, già Capo del Governo all’epoca della Grande Guerra.
Foto: Antonio Salandra
da https://it.wikiquote.org/wiki/Antonio_Salandra
Solo l’impossibilità dell’ex Primo Ministro di riuscire a formare un gabinetto a causa dei ripetuti rifiuti di Mussolini sugli eventuali compromessi di coalizione governativa, costrinse il Re a decidere a favore del futuro dittatore, affidando a questi l’incarico per la formazione di un nuovo governo per l’Italia.

Tutto ciò nella intima convinzione di Vittorio Emanuele che, alla fine, il potere avrebbe trasformato o comunque ammansito il carattere brusco e “rivoluzionario” del fascismo, così come aveva fatto in passato con i socialisti. Il corso degli eventi ha poi, nel lungo termine, dato evidentemente torto alla scommessa del Re: la Corona, pur rappresentando un argine alle ambizioni del regime mussoliniano a identificarsi con lo Stato stesso, non seppe difendere a dovere le istituzioni parlamentari. Esse, smontate pezzo per pezzo, a loro volta non si opposero legalmente all’arrivo al potere di Mussolini, persuase come il Re, per paura o forse anche per convenienza, che un governo dalle tendenze più autoritarie potesse essere necessario all’Italia in quel momento storico.
Fu solo con estremo ritardo che Vittorio Emanuele III destituì e arrestò Mussolini, nel luglio 1943. Il Sovrano avrebbe sicuramente desiderato liberarsi prima del dittatore, alla luce dell’andamento disastroso della guerra e dell’eccessiva invadenza del partito negli affari inerenti la Corona, come le norme inerenti alla successione al Trono. Tuttavia, a causa del suo rigido costituzionalismo (e anche per una certa ammirazione nei confronti del Duce, che nei suoi primi anni di governo aveva saputo risolvere alcune delle grandi questioni nazionali) aspettò una crisi interna al regime per muoversi; questa crisi fu l’Ordine del Giorno Grandi. È ben chiaro come l’agire del Sovrano fosse fin troppo cauto e ragionato; nulla era lasciato al caso quando doveva prendere decisioni che esponessero il trono a potenziali giudizi.

In definitiva, la serie, purtroppo, non propone una valida rappresentazione storica del Re, come, del resto, anche di altri personaggi che rimangono costantemente nell’ombra di Mussolini. Il prodotto, pur essendo nel complesso piacevole e accattivante (vista anche l’intenzione di attirare le nuove generazioni verso un tema che in Italia rimane tuttora attuale), cade troppo spesso nel grottesco e nella denuncia politica che, per quanto assolutamente legittima, condanna la serie al dover essere considerata come l’ennesima occasione persa per promuovere una maggiore comprensione e consapevolezza nei confronti di uno dei periodi storici più travagliati, ma anche per questo più interessanti, dell’Italia unita.
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