Conferenza del 29 ottobre 2022

di Eleonora Vicario

Il 29 Ottobre, nel bellissimo salone dell’Istituto Marymount di via Nomentana, a Roma, si è tenuta la conferenza dal titolo: “Il Re contro la Rivoluzione fascista nel centenario della marcia su Roma”.

Con grande emozione abbiamo ricevuto due messaggi da Casa Savoia, il primo da parte di S.A.R. il Principe Aimone per mezzo del Suo Segretario particolare,

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 il secondo direttamente dalla Duchessa Silvia.

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E’ stato un appuntamento molto desiderato dalla nostra associazione per mettere in luce, nei giorni del centenario, quanto è accaduto nel periodo immediatamente precedente alla marcia su Roma e cosa abbia provocato la decisione di Re Vittorio Emanuele III di non firmare lo stato di assedio, cosa che ha portato poi Mussolini al Governo.

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A questo scopo, abbiamo invitato tre personaggi di grande levatura culturale - moderati dal Presidente di Italiani monarchici – Patto per la Corona, Michele D’Ambrosio - ognuno dei quali si è occupato dei diversi aspetti del periodo storico in cui è avvenuta la marcia: la situazione sociale, quella politica e la posizione della Corona.

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Il primo intervento è stato di Filippo Del Monte, Analista geopolitico che ha spiegato che le vicende legate alle trasformazioni sociali nell’immediato primo dopoguerra, “in realtà sono cause che maturano in un lungo periodo”; la Prima guerra mondiale accelera una trasformazione che già stava avvenendo. L'Italia si avviava, alla fine della belle époque, alla ricostruzione del suo sistema economico e “il 1908 è indicato come l'inizio del processo di ricostruzione italiana che in realtà si crea nel 1915”, cioè con l'anno dell’entrata in guerra. Quello sarà l'anno in cui effettivamente l'intero sistema economico e sociale italiano, costruito a partire dal Risorgimento, sarà messo alla prova. “Di fatto con la Prima guerra mondiale, quando al popolo vengono effettivamente date le armi, questo problema si pone in tutta la sua importanza. Ed è anche uno dei problemi, una delle questioni che gli intellettuali dell'interventismo sono costretti ad affrontare. Siamo abituati a pensare al fatto che lo scontro tra interventisti e neutralisti sia stato uno scontro prettamente di piazza, sia stato uno scontro prettamente fatto di slogan, in realtà dietro anche al mondo composito che componeva lo schieramento interventista c'erano delle riflessioni culturali, ideologiche. Sistemi importanti nonostante fossero uno schieramento particolarmente variegato che andava dai sindacalisti rivoluzionari, persino qualche anarchico - per parlare di estrema sinistra dell'interventismo - fino ad arrivare appunto ai nazionalisti che rappresentavano l'estrema destra”.

Emergeva in quegli anni una classe sociale importante, quella del proletariato, che premeva per avere maggiore rappresentanza e una maggiore importanza all'interno della società. “Attenzione, l'interventismo è particolarmente attento ai contadini, un po’ meno agli operai e ci sarà questa discrasia fondamentale anche nell'immediato dopoguerra tra quello che sarà il gruppo del proletariato contadino, chiamiamolo così, e quello del proletariato industriale. Due esigenze differenti che anche il socialismo cercherà di recuperare e di collegare. Chiaramente in funzione sovversiva e rivoluzionaria, nonostante poi il sindacato fosse in mano ai riformisti”.

Citando Gioacchino Volpe, Del Monte riferiva che “al di là delle questioni di politica interna, l'Italia aveva fatto una guerra per garantirsi un posto nel mondo, per rafforzare la sua presenza in Europa e soprattutto perché il popolo italiano avesse la dignità che negli anni precedenti nessuno gli aveva riconosciuto”. Ma era sconosciuto il futuro della grande massa della società italiana alla fine della guerra: “il fante che ritornava contadino, quale società trovava?” Le principali organizzazioni che appoggiavano il Partito socialista e il Partito socialista stesso, volevano seguire l’esempio della Russia, la borghesia naturalmente era contraria. Nonostante fosse stata una guerra vinta, in realtà aveva posto tutta una serie di dubbi sulla reale tenuta delle istituzioni, “tant'è vero che nel periodo appunto della guerra, lo stato liberale italiano aveva accettato alcuni misure d'emergenza che erano fondamentali per la tenuta del fronte interno”.

Lo stato liberale, così come era nato dal Risorgimento, era già stato ampiamente messo in crisi.

Nell'immediato dopoguerra questo fu un problema che tanto a sinistra quanto a destra furono costretti ad affrontare. “Quali sono le questioni sociali principali che spingono a queste riflessioni che porteranno successivamente all'azione combinata e contraria delle sinistre, e contemporaneamente del nascente movimento fascista?”. In un primo momento, all'inizio di quello che era il pensiero interventista, la componente fascista era decisamente minoritaria e si sarebbe trasformata in qualche cosa di diverso a partire dal 1918.

Dal 1919 la questione economica dell’Italia diventava un problema fondamentale: “il sistema industriale italiano, il sistema produttivo per intero, aveva tenuto durante la guerra ma il passaggio nuovamente da un’economia di guerra all'economia civile era traumatico, sarebbe stato problematico”. C'era il problema dei reduci: come sarebbero stati reinseriti all'interno della società civile? C'era bisogno di risposte immediate e questo in un certo senso spiega anche perché “la gran parte del movimento combattentista si attesta su posizione democratiche e addirittura avrà spinte repubblicane, sotto certi aspetti, e persino sovversive”. E’ qui che il fascismo trova i suoi sostenitori principali cioè tra gli ex combattenti che tornati a casa si aspettavano qualche cosa di più.

“C'erano stati dei periodi - specialmente nella seconda parte della guerra, cioè quando la propaganda si era fatta particolarmente martellante e quando c'era l’urgenza politica di dire: ok finita la guerra dopo che cosa facciamo? - lì erano state promesse tutta una serie di cose alle cosiddette classi subalterne, come ad esempio la redistribuzione delle terre, o il fatto di una maggiore rappresentanza che poi in realtà non si era potuto verificare in tempi brevi o che probabilmente non si aveva neanche intenzione di portare avanti fino in fondo”.

Del Monte concludeva dicendo: “E’ una questione sociale particolarmente problematica, particolarmente infiammata e quindi è per questo che, quel clima all'inizio strisciante poi di effettiva guerra civile, porterà ad una determinata soluzione che si esplicherà il 28 ottobre del 1922 ma che di fatto era una conclusione quasi scontata”.

Il secondo intervento è stato dell’Avvocato Paolo Albi che, riassumendo le cause politiche che hanno portato alla marcia su Roma, ha invitato a una riflessione sul momento attuale e citando Benedetto Croce ha detto: “Benedetto Croce sosteneva che la storia è sempre storia contemporanea nel senso che lo storico è mosso anche dalla passione per i suoi interessi attuali”, bisogna quindi vedere “quale ammaestramento ci può dare questa data”.

Dopo aver concordato con il precedente relatore sulle ragioni storico-sociali dei reduci e sulla crisi economica ha aggiunto che la marcia su Roma “fu un vero e proprio strappo rivoluzionario sul quale Mussolini fu sempre sincerissimo. Gli altri si illudevano di costituzionalizzarlo, di irreggimentarlo ma lui rivendicava l’atto rivoluzionario, lui vedeva la fondazione del fascismo nell'atto rivoluzionario della marcia su Roma ed era, nella sua visione, una sua gentile concessione di essersi in un certo senso un po’ irreggimentato nell'alveo della Monarchia, dello Statuto albertino”.

Chi non capì cosa stava avvenendo fu la gran parte della classe politica perché non si accorse che “stava perdendo legittimità lo stato liberaldemocratico”. Il primo  shock per il mondo liberale fu l'introduzione del suffragio universale nel 1912. “Il Risorgimento forse rimase a lungo un fenomeno di élite perché proprio con l’irrompere del suffragio universale e l'affermarsi dei partiti cosiddetti di massa”, cominciò la crisi del sistema politico. Questi nuovi partiti di massa “erano partiti che avevano da una parte una tensione rivoluzionaria forte perché troppo tardi Turati e Matteotti fanno il partito socialista unitario su basi riformiste. Vi era la forte concorrenza da sinistra della scissione di Livorno, vi era la pressione fascista su quella medesima situazione e vi era da parte dei cattolici ancora molto aperta la questione romana: per lungo tempo i cattolici ebbero il divieto di partecipare alla vita politica in Italia. Vi era comunque un’estraneità del mondo cattolico al Risorgimento, anche un certo sentimento di inimicizia verso il Risorgimento e verso lo Stato che era nato dal Risorgimento, verso l'Italia proprio”.

Albi aggiungeva: “Un ruolo devastante secondo me lo giocò Sturzo che mise, anche nel momento in cui si preparava la marcia su Roma, mise un veto insuperabile, invalicabile su Giovanni Giolitti che forse era l'unico che avrebbe potuto da Presidente del Consiglio invertire la rotta”.

Solo due persone capirono quanto stesse accadendo: Giovanni Amendola e Piero Gobetti. “Piero Gobetti era molto duro, ci fu un’intransigenza antifascista di Piero Gobetti sin dall'inizio; molto duro anche su tutte le illusioni che poi si rivelarono ben presto illusioni del mondo liberale, anche cattolico, di costituzionalizzare il fascismo e tendeva a rendere forte il conflitto; lasciamo perdere le alleanze che lui sognava tra ceti produttivi e proletariato più avanzato; celebre fu il suo elogio della ghigliottina: sperava che il fascismo si rivelasse per quello che era, in tutta la sua durezza e crudezza e che quindi ciò provocasse la reazione di chi invece si illudeva di condurlo… di irreggimentarlo nella tradizione della Monarchia costituzionale e dello Stato liberale”.

Il mondo liberale era diviso tra Nitti, Orlando, Salandra, Giolitti e “alla fine venne fuori la soluzione Facta, un personaggio tutto sommato di secondo piano. […] Mussolini fu abbastanza abile anche nel valorizzare un po’ Facta. Mussolini ha chiarissimo il fatto che se fosse tornato Giolitti, le cose si sarebbero molto complicate.”

Una responsabilità di rilievo fu anche dei cattolici e dei socialisti “dei cattolici, ancora dietro la questione romana, dei socialisti che non furono capaci di promuovere questo incontro, almeno nella loro componente riformista, col mondo liberale”.

La rottura del dopoguerra con gli equilibri precedenti, “acuita poi da una classe politica sempre più inadeguata che si cooptava attraverso sistemi che erano deteriori” ha portato alla crisi del sistema e al successo di Mussolini.

L’ultimo intervento è stato dello storico Andrea Ungari che in un volume su Re Vittorio Emanuele III ha descritto i poteri del Sovrano, che ha avuto un ruolo decisivo per la storia di questo Paese anche per il suo lungo regno: “ricordo che ha regnato per 46 anni e che ha attraversato dei momenti tragici per questo Paese. […] fra tutti i sovrani che si sono succeduti, tutti i Savoia, è quello più intelligente, per certi versi quello che ha studiato di più, che era più attento a tutta una serie di questioni, sì di politica interna ma soprattutto di politica estera”. Ungari afferma che la Monarchia ha avuto tre fasi, le prime due contrapposte fra loro e la terza dopo il 25 luglio del ’43. Missiroli descrisse la prima fase come Monarchia socialista, aperta al progresso delle classi sociali, al progresso economico, con una politica interna che appoggiava quella politica giolittiana di dialogo sia con i cattolici che con i socialisti.

La seconda fase, successiva alla Prima guerra mondiale, vede il Sovrano diverso rispetto alla fase precedente: la guerra rappresenta uno spartiacque, una cesura nella storia europea, non solo quella italiana: “tutti gli Stati europei alla data del 1919 - a parte la Cecoslovacchia e la Germania perché ancora non nasceva il nazismo – Francia, Inghilterra… sono caduti tutti sotto regimi pseudo autoritari” E’ evidente una crisi della democrazia dopo la Prima guerra mondiale e anche l'atteggiamento del Sovrano, in politica estera e in politica interna, cambia.

“E’ un Sovrano che nella battaglia interventista quella del ’14, ’15, aderisce e ispira questa idea di una più grande Italia. Se noi andiamo a vedere anche le rivendicazioni nel patto di Londra, non sono rivendicazioni risorgimentali: non guardiamo solamente a Trento e Trieste… il completamento… la quarta guerra del Risorgimento, il completamento dell'epopea della famiglia - che comunque c'è in Vittorio Emanuele III – […] aveva calcolato, proprio perché è una persona acuta, la grandiosità degli avvenimenti in corso, il coinvolgimento mondiale degli Stati […] il Re - questo lo dico attraverso una ricostruzione fatta con gli archivi soprattutto stranieri - partecipa alla difesa degli interessi italiani durante tutti e 5 gli anni di guerra”.

Il Re aveva insistito molto nei colloqui con gli alleati nel dopoguerra perché l'Italia ottenesse Smirne e questo non aveva collegamenti con gli ideali risorgimentali. Smirne era un suo progetto di politica estera, l'idea di una più grande Italia, con nuovo ruolo, un nuovo status internazionale per il Paese. Pensava che le trattative di pace fossero l'occasione per fare dell'Italia una grande potenza, desiderava un'espansione italiana nel Mediterraneo orientale “collegata al possesso delle isole del Dodecaneso che avevamo acquisito con la pace di Losanna del 1912, che era una proiezione in quel Mediterraneo orientale dove sicuramente né francesi né inglesi volevano che l'Italia fosse presente”. Questo spiega il non appoggio dei francesi e degli inglesi alle rivendicazioni italiane durante le trattative di pace e spiega perché “all’indomani della fine del conflitto mondiale ci sia una forte tensione tra tutti gli attori politici italiani e gli alleati o gli ex alleati; questo non solo per quanto riguarda Salandra e Sonnino alla conferenza di pace ma anche per quanto riguarda il Sovrano”.

L’altro interesse del Re era Fiume per la quale si creò un caso politico, diplomatico, militare e nel primo dopoguerra “il Re ribadisce più volte l'italianità di Fiume; la ribadisce a Camille Barrère, l'Ambasciatore francese a Roma, a Sir Rennell Rodd, l’Ambasciatore britannico, insiste con Orlando che Fiume è italiana, Fiume deve tornare all'Italia. Su Fiume si consuma anche un po’ il rapporto con gli alleati, soprattutto con i francesi”.

Inoltre il Sovrano desiderava anche un riorientamento della politica estera italiana verso i Balcani sin dal matrimonio con Elena del Montenegro.

Venendo alla politica interna, il Re stava assistendo alla ristrutturazione del quadro politico italiano ed essendo un Re costituzionale potè solo prendere atto del disfacimento della classe dirigente di quegli anni. “Noi parliamo sempre di quattro Presidenti del consiglio ma in realtà sono tanti governi; il governo Nitti… quando faccio lezione dico: il governo Nitti, ’19-’20. Il governo Nitti sono tre governi che durano un anno cioè dal giugno ’19 al maggio ’20; però si succedono tre governi quindi vuol dire che c'è una forte instabilità parlamentare”.

Sono tanti gli aspetti che vanno presi in considerazione per comprendere i motivi della marcia su Roma e il successivo avvento del fascismo. Primo fra tutti il fatto che “tra il 1919 e il 1920, si sviluppa una situazione prerivoluzionaria in parte spontanea, in parte asseconda dal Partito socialista italiano, che fa presagire la volontà da parte dei socialisti, che erano passati su posizioni massimaliste già nel 1912, di voler fare come in Russia, cioè di voler fare una rivoluzione bolscevica In Italia. […] Lenin era ancora alla guida del movimento comunista in quella che sarebbe diventata l'Unione sovietica” e riteneva che la rivoluzione dovesse essere esportata.

Nonostante questo timore, la classe dirigente appariva incapace di gestire la situazione, “prima la violenza socialista e poi la violenza fascista; una classe dirigente estremamente divisa in cui si contendono… più che Salandra… soprattutto il dissidio tra Giolitti e Nitti è un dissidio lacerante” che si evidenzierà con le trattative con Mussolini. “Mussolini, quando arriviamo al ’22, ormai è chiaro che deve entrare al governo, è chiaro che i fascisti devono entrare al governo quantomeno per fermare la violenza fascista”. Stava iniziando la guerra civile, italiani contro italiani e di questo il Re era consapevole; sapeva anche che questa sarebbe esplosa in tutta la sua drammaticità se avesse firmato lo stato d’assedio. Inoltre, il Re temeva in una defezione delle Forze Armate la cui politicizzazione va fatta risalire ben prima della Prima guerra mondiale, una politicizzazione in senso fortemente antisocialista.

Facta nel frattempo promulgava la legge sulla Gazzetta Ufficiale senza che il Re avesse firmato il decreto d'assedio e per un Sovrano come Vittorio Emanuele III questo fu uno sgarbo istituzionale. “Questo nella forma, ma non solo per lui! Certo, come se venisse promulgata una legge senza la controfirma del Presidente della Repubblica e questo, per un Sovrano come Vittorio Emanuele III, molto attento alla propria regalità, molto attento proprie alle funzioni, questo non è un passaggio che credo abbia gradito”.

Questa evidente incapacità della classe dirigente liberale di gestire la situazione preoccupava il Sovrano creando in lui anche un certa disaffezione per la lotta politica, “non è un caso che lui tutti gli anni li passa al fronte… Mussolini non è la sua carta, la carta alla quale il Sovrano guarda è Salandra, perché Salandra era quello che rappresentava la destra nazionale, quella idea di quella più grande Italia”. Ma nessuno degli uomini politici liberali sarebbe stato in grado di governare e per questo alla fine si impose Mussolini.

Il Re credette, come molti, che il fascismo si sarebbe costituzionalizzato. “La storia di questo Paese insegna che tutte le forze rivoluzionarie poste a contatto con il potere, poi si sono normalizzate”. Non è questo purtroppo ciò che accadrà nei decenni successivi.  Ungari è però convinto che non è nel ’22 che iniziò il periodo fascista: “con il governo di coalizione non credo che ci sia un regime fascista. E’ un governo di coalizione; il Parlamento è quello liberale, il Parlamento fatto da Giovanni Giolitti, è un Parlamento giolittiano non ci sono fascisti; i fascisti entrano nel ‘35 in Parlamento quindi dire che c'è la dittatura… le istituzioni non sono fasciste; ci saranno i ministri, ma neanche tutti i ministri perché i ministri sono espressione anche di altri partiti, non solo fascisti”.

Nella valutazione degli eventi storici, quindi, contano i personaggi, contano i rispettivi caratteri e i propri interessi, e conta anche la visione di carattere generale. Il Re aveva una visione del bene supremo del Paese, l'ideale monarchico dove il Monarca è il depositario della volontà della Nazione, dei supremi interessi della Nazione: “cosa sarebbe successo se si fosse dato il Paese a una coalizione del partito socialista unificato con quello che rimaneva dei liberali? Sarebbero stati in grado? Ecco, il Re su questo non scommette”.

Siamo molto grati ai nostri relatori per i loro interventi e ringraziamo anche il Preside dell’Istituto Marymount, Prof. Andrea Forzoni, e Sister John Bosco per averci concesso un ambiente accogliente ed elegante nel quale incontrarci.  

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