Dal Latino alle prime testimonianze scritte in lingua italiana - Dal latino classico al latino medievale

di Michele D'Ambrosio

Stabilire la data di nascita di una lingua come la nostra è un’impresa assai ardua ed impegnativa che ha visto impegnati numerosi studiosi nei secoli. Le difficoltà sono da ricercare su due fronti, ovvero:

  1. la scarsa presenza di documenti scritti;

  2. l’oralità che caratterizzava la “lingua italiana” delle origini.

Per ora ci limiteremo solo ad affermare che una lingua non è un organismo biologico e che non ha senso, se non puramente pratico, parlare di nascita e di morte di una lingua: una lingua si evolve, non nasce, né muore. Possiamo affermare, dunque, che tutto il ceppo delle lingue romanze (italiano, francese, spagnolo, portoghese, rumeno, sardo, ladino, friulano, catalano, provenzale) siano la prosecuzione diretta del latino.

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Prima di affrontare il tema della lingua italiana e della sua evoluzione, come già anticipato, non possiamo fare a meno di recuperare qualche nozione storica sulla lingua latina. Anzitutto bisogna fare chiarezza sull’uso della parola latino per indicare la lingua di Roma e del suo Impero; il termine latino, infatti, è un termine generico che può trarre facilmente in inganno, tutti sappiamo che l’italiano è figlio del latino, ma quanti si pongono la domanda successiva? Quanti si chiedono di che latino sia figlia la lingua italiana? Come ogni lingua, anche la lingua latina venne interessata da mutamenti diacronici (legati al tempo), diatopici (legati al contesto geografico. Il latino parlato in Spagna o sulle frontiere più remote dell’Impero non era lo stesso parlato a Roma), diafasici (legati ai vari registri linguistici), diastratici (legati al ceto sociale del parlante) e diamesici (legati alla trasmissione scritta o orale della lingua). Esaminando questi cinque fattori possiamo certamente affermare che erano numerose le varianti di latino presenti nell’Impero: il latino del tardo Impero non era quello dei tempi della fondazione di Roma, il latino parlato in Senato non era quello parlato dalla popolazione nella quotidianità, il latino parlato in Pannonia non era quello parlato nella Penisola Iberica. Per comprendere al meglio le origini delle lingue neolatine, la nostra attenzione deve essere rivolta al latino parlato. Questa esigenza, però, apre la strada a nuove problematiche che nel latino scritto sono quasi del tutto inesistenti o facilmente affrontabili. Se per il latino scritto abbiamo a disposizione innumerevoli testimonianze, per la forma parlata non si può dire lo stesso. Per la ricostruzione del latino parlato dobbiamo affidarci a poche e saltuarie fonti come:

  1. iscrizioni murarie;

  2. glossari (antenati rudimentali dei nostri vocabolari);

  3. testimonianze di soldati scriventi dalle aree più remote dell’Impero (solo in Egitto sono state ritrovate oltre 300 lettere);

  4. autori che tentano di riprodurre, nelle loro opere, i tratti tipici del latino parlato; tra questi ricordiamo Plauto (III secolo a.C.) e Petronio (I secolo d.C);

  5. la letteratura cristiana, dove, nelle prime traduzioni delle Sacre Scritture, il primo scopo era quello di far capire alla gente comune il concetto e non quello di scrivere in un latino perfetto. Questo concetto è espresso chiaramente in un’affermazione di Sant’Agostino (IV secolo d.C.): “Melius est reprehendant nos grammatici quam non intelligant populi” (meglio che ci rimproverino i grammatici piuttosto che non ci capisca la gente);

  6. trattati tecnici di architettura, cucina, medicina e farmaceutica, dove la lingua passava in secondo piano rispetto alla materia trattata.

  7. In opere di grammatici e insegnanti di latino i quali appuntavano tutti gli errori che riscontravano negli scritti e li correggevano secondo lo schema “A” non “B”. Un esempio invidiabile è quello pervenutoci tramite l’Appendix Probi, opera di un maestro di scuola del III secolo d.C. che raccoglie 227 “errori” nella scrittura delle parole latine. Di seguito vengono riportate, come esempio, alcune delle parole contenute.

Speculum non speclum

Columna non colomna

Calida non calda

Turma non torma

Auris non oricla

Come possiamo osservare, nella colonna di destra, vengono riportate le forme scorrette, quelle che maggiormente interessano la nostra materia. Nella colonna di destra, infatti, possiamo notare come le forme scritte inizino ad essere condizionate in maniera molto forte dal parlato, al punto da arrivare a scrivere la parola come pronunciata volgarmente e non come la grammatica latina vorrebbe.

Come emerge da questa breve introduzione, la questione della lingua latina è una questione assai più complessa rispetto a quel che potrebbe apparire e richiederebbe approfondimenti ed analisi che riserviamo ad altri scritti di settore riportati nella bibliografia. Semplificando il tutto, per quel che riguarda la nostra trattazione, possiamo e dobbiamo suddividere il latino in due grandi categorie semplificate: il latino classico ed il latino volgare. Con latino classico intendiamo il latino utilizzato nello scritto nell’età aurea di Roma (50 a.C. – 50 d.C.), rimasto pressoché invariato e costante nel corso della storia. Con latino volgare, o sermo vulgaris, intendiamo, invece, una realtà estremamente più complessa ed articolata che ingloba il latino parlato nell’Impero in tutte le sue sfaccettature, da tutti, in ogni luogo e in ogni tempo (ricchi, poveri, abitanti di Roma, delle zone di frontiera, all’epoca della fondazione di Roma e nel tardo Impero). E’ proprio nel sermo vulgaris che andremo a ricercare le origini primordiali delle varie lingue neolatine e, in particolare, della lingua italiana.

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Giunti a questo punto della trattazione, una delle prime domande che sorgono è la seguente: cosa portò il latino a perdere la sua egemonia linguistica e perché si è trasformato al punto di suddividersi in più lingue indipendenti ed autonome? La soluzione a questa domanda potrebbe sembrare scontata e risolta con una risposta, apparentemente, molto semplice: la caduta dell’Impero romano d’occidente. In realtà, la questione è assai più complessa ed articolata, proveremo a risolverla rispondendo alla domanda con tre cause riassunte per punti:

  1. La perdita di potere della classe aristocratica: questo fattore fece si che la lingua romana per eccellenza iniziò ad indebolirsi a favore di una lingua meno colta e nobile rispetto al latino classico;

  2. La diffusione del Cristianesimo: con la diffusione del Cristianesimo, il latino iniziò ad inglobare nel suo lessico termini di origine greca (lingua comune alle prime comunità cristiane), si parla, infatti, di grecismi sempre più diffusi all’interno del lessico latino, eccone alcuni esempi: Battesimo, Chiesa, Cresima, Eucarestia, Parabola, Vescovo. Oltre all’aver inglobato nuovi termini all’interno della lingua latina, al Cristianesimo viene mossa l’accusa ideologica di aver inflitto, se non quello decisivo, uno tra i colpi mortali al latino classico, privilegiando il latino volgare per raggiungere e convertire il più alto numero di persone.

  3. Le invasioni barbariche: fu proprio con le invasioni barbariche che, a partire dal IV secolo d.C., al latino classico venne inflitto il colpo mortale. In seguito alle invasioni barbariche, infatti, il latino classico venne via via sostituito, in maniera irreversibile, dal latino volgare in tutti i territori dell’Impero ormai moribondo. Fu la Chiesa che, seppur complice di questa decadenza, impedì il totale dissolvimento del latino classico conservando e riproducendo gli scritti della Roma imperiale e repubblicana che si salvarono dalle invasioni e dai saccheggi degli eserciti barbari.

I tre punti appena trattati furono comuni a tutti i territori dell’Impero, si continuava a parlare secondo la lingua di Roma, ma in ciascuno dei territori si andava man mano personalizzando e modificando il lessico, la struttura della frase (dall’impostazione della frase latina Soggetto Oggetto Verbo, si arrivò all’impostazione Soggetto Verbo Oggetto comune alle lingue romanze attualmente parlate) e la fonetica. Questi processi di trasformazione linguistica durarono secoli e si possono considerare conclusi solo nell’VIII secolo, quando le varie lingue romanze si imposero al posto del latino (nel parlato) con una propria struttura, al punto da diventare incomprensibili tra loro.

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Altro discorso andrebbe fatto per il latino scritto, estremamente più rigido e duraturo nella sua struttura. Nello scritto, infatti, i mutamenti furono estremamente più lenti e complessi rispetto a quelli avvenuti nella lingua orale; questa immutabilità fu dovuta anche alla visione che si andava materializzando in quel periodo: il latino come lingua di cultura, ovvero, chi sapeva leggere e scrivere lo faceva in latino. Il latino scritto, nella sua immutabilità, col passare dei secoli venne anch’esso influenzato dall’evolversi della lingua orale, tant’è che si parla di latino medievale e non più di latino classico. Il latino medievale, col passare dei secoli, può essere sempre più definito come una lingua scritta, ma non pensata. Lo scrivente pensava in volgare per scrivere in latino, da qui le mutazioni linguistiche presenti anche nello scritto. Di seguito un esempio di quanto detto tratto da un documento senese del 715 d.C., il Brevei de inquisitione, conservato nell’Archivio Capitolare di Arezzo:

Iste Adeodatus episcopus isto anno fecit ibi fontis, et sagravit eas a lumen per nocte, et fecit ibi presbitero uno infantulo abente annos non plus duodecem, qui nec vespero sapit, nec madodinas facere, nec missa cantare. Nam consubrino eius coetaneo ecce mecum abeo: videte, si potit, et cognoscite presbiterum esse.”

Questo vescovo Adeodato quest’anno vi fece il fonte (battesimale) e lo consacrò di notte a lume (di torce). E vi fece prete un ragazzino dell’età di non più che dodici anni, che non sa celebrare né vespero né mattutino, né cantar Messa. In verità, ecco, ho qui con me un cugino suo coetaneo. Vedete e giudicate se può essere un prete.”ii

Questo documento, redatto dal messo regio Gontrando, contiene le dichiarazioni di un religioso. La deposizione di testimonianze durante gli interrogatori sarà uno dei primi moventi per la produzione di testi in volgare italiano. In questa prima testimonianza riportata non possiamo certo dire che ci siano tracce di volgare nello scritto, ma il latino notarile del messo notificatore lascia intravvedere uno stile molto più libero di quanto previsto dalla norma grammaticale latina e risente molto del parlato, di seguito qualche nota:

  1. Abolizione delle desinenze dell’accusativo in fecit presbitero uno infantulo, vespero, missa cantare;

  2. Unus, numerale latino, utilizzato come articolo indeterminativo (gli articoli non erano previsti dalla grammatica latina)

  3. Il lessico è ricco di neologismi liturgici come vespero, madodinos, missa.

Questo analizzato non è che uno degli esempi di latino medievale di cui siamo in possesso. Non possiamo ridurre il tutto ad ignoranza o errori di grammatica da parte degli scriventi, piuttosto dobbiamo studiare questi documenti come creazione e realizzazione di registri intermedî (usando l’espressione di Avalle [1968: IX]) tra latino e volgare. Quanto letto non è latino, né volgare, ma una lingua in evoluzione che, dal latino, porterà, nei secoli successivi, al vero volgare.

Uno dei problemi, spesso ignorati, di queste nuove lingue era, senza dubbio, la resa grafica dei nuovi fonemi, dei nuovi suoni che esse avevano sviluppato rispetto al latino. Non è certo semplice rendere scritta una lingua, da sempre, tramandata oralmente; è come se oggi dovessimo iniziare a scrivere ognuno nel proprio dialetto, pur avendone piena padronanza nel parlato e nella comprensione, molti suoni non saremmo in grado di renderli in maniera grafica, se non per approssimazione e tenendo fede alle norme della lingua italiana. Se dovessimo datare le lingue volgari ai primi documenti scritti rispettando norme ben precise di composizione, dovremmo aspettare il XIII secolo, ma ci troveremmo di fronte a lingue già impostate e ben definite. Lo scopo di questo scritto è approfondire il percorso che portò a quel tipo di impostazione.

- Fine prima parte –

i Documento probativo che nel Medioevo veniva redatto da un notaio per conservare il ricordo di un negozio giuridico. Il termine sopravvisse dopo il Medioevo presso la curia pontificia con accezione di documento contenente una dichiarazione o decisione pontificia

ii Traduzione utilizzata in Avalle [1965:5] e Roncaglia[1965:146]

Bibliografia

  • Patota Giuseppe, Nuovi lineamenti di grammatica storica dell’italiano, Bologna, Il Mulino, 2007

  • Marazzini Claudio, La lingua italiana – profilo storico, Bologna, Il Mulino, 2002