Dal Latino alle prime testimonianze scritte in lingua italiana – parte seconda

di Michele D'Ambrosio


Dalle prime iscrizioni in volgare al Placito Capuano

La prima parte di questa trattazione si è conclusa con l’esempio del breve de inquisitione e con le difficoltà che si presentarono nella resa grafica dei nuovi fonemi. In questa seconda parte tratteremo ed esamineremo nuove fonti e nuovi documenti a partire dalle prime e più antiche iscrizioni murarie in volgare a noi pervenute.

Uno dei primi documenti di cui ci occuperemo è il graffito della catacomba di Commodilla a Roma; questo graffito murario, anche se a prima vista non risulta evidente, riporta delle testimonianze molto preziose sull’evoluzione della lingua. Quella che può sembrare un’iscrizione latineggiante, in realtà riporta una meravigliosa registrazione del linguaggio parlato dell’epoca. Studiare una fonte di questo tipo, però, fa emergere immediatamente dei problemi non indifferenti; non essendo un documento scritto con la volontà di testimoniare qualcosa, il graffito non ha alcun riferimento cronologico proprio, pertanto la datazione può essere ricostruita solo con dei riferimenti cronologici post quem ed ante quem come vedremo di seguito.

L’iscrizione si trova nella cripta dei santi Felice e Adàutto, nella catacomba romana di Commodilla. La cripta in questione venne scoperta solo nel 1720, subito dopo, una frana ne impedì l’accesso fino al 1903, anno in cui l’iscrizione venne portata all’attenzione degli studiosi. Questi sostengono che la cappella fu utilizzata come luogo di culto fino alla metà del IX secolo, periodo in cui le spoglie dei due Santi vennero traslate altrove. Dalla metà del IX secolo il luogo cadde in disuso e venne lasciato all’abbandono. L’iscrizione, incisa nello stucco di un affresco risalente al VI – VII secolo, senza alcun dubbio venne realizzata prima dell’abbandono della cappella. In base a quanto riportato fin qui, possiamo affermare di avere due estremi cronologici in cui possiamo datare l’iscrizione: un estremo post quem che coincide con la datazione dell’affresco (VI – VII secolo) ed un termine ante quem che coincide con l’abbandono del luogo di culto (metà del IX secolo).

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Graffito della catacomba di Commodilla

Il graffito si può leggere nel seguente modo:

NON DICERE ILLE SECRITA A BBOCE”

Questa frase possiamo tradurla nel seguente modo: non dire (que)i segreti a voce altai. Trovandosi all’interno di un luogo di culto, questa iscrizione non fa riferimento a dei segreti qualunque, bensì fa riferimento a “segreti” strettamente relegati all’ambiente in cui si trova, un esempio lampante potrebbero essere le orazioni segrete della Messa. Verosimilmente l’iscrizione è stata prodotta da un prete con l’intento di invitare i suoi colleghi a recitare a bassa voce il Canone della Messa, cosa in uso fin dall’VIII secolo, una sorta di appunto liturgico. Il fatto che il Canone della Messa venisse recitato a bassa voce solo dall’VIII secolo, restringe ancor di più il margine temporale in cui è stata fatta l’iscrizione e concorda con i limiti temporali precedentemente riportati.

Dal punto di vista linguistico dobbiamo focalizzarci sulla grafia di “A BBOCE” . Come emerge dalla foto, la seconda B risulta essere di dimensioni inferiori rispetto alla prima, questo testimonia il fatto che sia stata aggiunta successivamente nel poco spazio rimasto libero. Questa modifica riporterebbe la riproduzione esatta del betacismo (passaggio da V a B: VOCEM > BOCE) e del raddoppiamento fonosintattico presente nella B. Il motivo per cui la seconda B sarebbe stata aggiunta in un secondo momento potrebbe essere quello di una semplice svista (una scrittura lenta come quella richiesta dall’incisione e il supporto verticale, non certo comodo alla scrittura, su cui è realizzata potrebbero dare credito a questa ipotesi): l’autore, una volta terminata l’opera, rileggendo si accorse che quanto scritto non rendeva appieno il parlato, quindi aggiunse una seconda B, un vero e proprio volgarismo.

Altre due parole a cui dobbiamo prestare attenzione sono secrita ed ille:

  • Secrita: questa parola sarebbe da leggersi come secreta, la “i” sarebbe solo una grafia approssimativa per rendere la “è” derivata da “Ē” latina.

  • Ille: nel latino questo nesso veniva utilizzato come dimostrativo, in questo caso viene impiegato come articolo.

Dal punto di vista prettamente paleografico possiamo notare la coesistenza di due diversi tipi di scrittura: la scrittura capitale, largamente maggioritaria, e la scrittura onciale che ritroviamo, ad esempio, nei tratti ornamentali della L della quarta riga. Si noti che la scrittura onciale venne adoperata sino alla cosiddetta rinascenza carolingiai (VIII – IX secolo circa).

Un altro affresco murario da cui non può prescindere la nostra trattazione è l’iscrizione presente nella basilica di San Clemente a Roma. Questa iscrizione rappresenta la prima vera comparsa del volgare in un’opera d’arte. A differenza dell’iscrizione presente nella catacomba di Commodilla, infatti, in questa iscrizione la volontà di rendere il testo parte dell’opera è palese; azzardando, possiamo quasi affermare che questo affresco rappresenta un lontano antenato dei nostri fumetti. Il testo alterna frasi in latino a frasi in volgare, in base ai personaggi a cui sono attribuite. L’affresco in questione venne riportato alla luce solo nel 1861 e tuttora è visibile nella cappella sotterranea della basilica di San Clemente (non lontano dal Colosseo); l’affresco narra della cattura di San Clemente per ordine del patrizio romano Sisinnio. I servi del patrizio eseguono il mandato di cattura, ma non si accorgono che quello che stanno portando con sé non è San Clemente, ma una pesante colonna in pietra. Nell’opera sono rappresentati Sisinnio (il patrizio) e i tre servi Albertello, Carboncello e Gosmari, di questi il servo rappresentato a sinistra solleva la colonna con un palo, gli altri due la tirano con una corda.


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Iscrizione basilica romana di San Clemente

Anche in questa occasione non mancano problemi di datazione, ma sappiamo che il muro su cui è realizzato l’affresco è stato realizzato dopo il 1084 e che la nuova basilica di San Clemente (realizzata sopra la vecchia) fu consacrata nel 1128. L’affresco è stato dunque realizzato tra il 1084 ed il 1128, ma, con ogni probabilità, possiamo affermare che la data della realizzazione sia più vicina alla data del muro che a quella della consacrazione della nuova chiesa.

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Bozzetto iscrizione basilica di San Clemente

Confrontando l’immagine dell’affresco col relativo bozzetto possiamo semplificarne la spiegazione. Le lettere presenti nel bozzetto raffigurano le parti di testo che andremo ad analizzare. Come già detto, uno dei primi fattori da analizzare è la coesistenza della lingua latina (B, C) e del volgare romanesco che emerge dalle parole degli schiavi (A, D, G); in lingua latina ritroviamo anche l’iscrizione posta immediatamente sopra l’affresco in cui si leggono i nomi dei committenti. Il latino, dunque, è utilizzato per le parti più alte e nobili della scena, ovvero la frase immediatamente sopra la scena con i nomi dei committenti e il giudizio morale di quanto raffigurato (B, C). Se il latino è utilizzato per le parti più alte della scena, il volgare emerge vivo come non mai nelle scene dei personaggi; il volgare emerge con un registro linguistico estremamente basso e popolare la cui traduzione viene proposta in notai

A: FALITE DERETO CO LO PALO CARVONCELLE

B: DURITIAM CORDIS V(EST)RIS

C: SAXA TRAERE MERUISTIS

D: ALBERTEL TRAI(TE)

E: GOSMARI

F: SISINIUM

G: FILI DELE PUTE TRAITE

In questo affresco l’intenzionalità del volgare è chiara ed evidente a tutti, l’intenzionalità del parlato prevale anche sulle scritte in latino, fino a scadere nel turpiloquio.

Sullo stile del volgare possiamo osservare quanto segue:

  • Il passaggio dal nesso –rb- al nesso –rv- in Carvoncelle, tipico del romanesco antico, oggi non più presente a Roma, ma presente nei dialetti meridionali;

  • Fili va letto figlii; il nesso -li- veniva letto –gli- già nel latino volgare del III secolo d.C. (la difficoltà della resa grafica di alcuni fonemi è evidente in questo caso).

Il Placito Capuano: l’atto di nascita della lingua italiana

Nella trattazione fin qui esposta abbiamo trattato di due opere murarie, tra le principali, poste agli albori della lingua volgare. Va tuttavia evidenziato che tra l’iscrizione presente nella catacomba di Commodilla e la realizzazione dell’affresco presente nella basilica di San Clemente passano circa due secoli. In questi due secoli si colloca il documento per eccellenza della lingua italiana, ovvero il Placito Capuano, vero e proprio atto di nascita della nostra lingua, primo documento ufficiale scritto in volgare con la reale intenzione di scrivere in tale lingua. Il Placito in questione è il verbale di un processo, scritto su un foglio in pergamena, relativo a una causa discussa di fronte al giudice capuano Arechisi nel 960. Dal Notaio si presentarono l’abate di Montecassino e un certo Redelgrimo di Aquino; quest’ultimo rivendica il possesso di alcune terre occupate, a suo dire, ingiustamente dal monastero. L’abate, per contro, evoca in suo favore un principio ancora oggi in vigore nel nostro ordinamento conosciuto come usucapione. Il religioso, infatti, sostiene che quelle terre erano lavorate dal monastero da trent’anni (tempo necessario, secondo la legge longobarda vigente in quel territorio al tempo della contesa, per diventarne proprietario). Nel giorno stabilito per il processo, tre testimoni furono chiamati a raccontare la loro versione dei fatti. I tre testimoni, di fronte al Giudice, tenendo in mano la memoria presentata da Redelgrimo recitarono, uno alla volta, una formula testimoniale in favore dell’abate. Per volontà del Giudice Archesi fu redatto un verbale dal Notaio Atenolfo, ma, per la prima volta, non venne redatto in latino il testo della testimonianza. Le testimonianze vennero, infatti, riprodotte come sentite, ovvero in volgare. I verbali che fino ad allora erano totalmente redatti in latino, col Placito Capuano, introdussero vere e proprie formule di testimonianze in lingua volgare autonoma (non scritte in latino con sfumature di volgare). Di seguito l’esempio contenuto nel Placito Capuano:

Ille autem, tenens manum memoratam abbreviaturam, et tetigit eam cum alia manu, et testificando dixit: “Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte S(an)c(t)i Benedicti”.i

Traduzione:

Ed egli, tenendo in mano la predetta memoria, e toccandola con l’altra mano, rese la seguente testimonianza: “So che quelle terre, entro quei confini che qui si descrivono, trent’anni le ha tenute in possesso l’amministrazione patrimoniale di San Benedetto”.

Il Placito Capuano ha tutti i caratteri di un volgare locale che ancora sopravvive nei dialetti odierni di quella zona, un esempio è l’uso di kelle per “quelle”. Nonostante la piena autonomia del volgare, però, non mancano alcuni latinismi nello scritto, ad esempio, il nesso –ct- in Sa(n)c(t)i Benedicti, anche se si leggeva già Santi Beneditti.

La formula del Placito Capuano del 960 non è il solo Placito che abbiamo, altri tre Placiti coevi sono stati ritrovati a Sessa Aurunca e a Teano e risalgono al 963. L’insieme di questi Placiti costituisce la raccolta dei Placiti campani, nome derivato dalla regione del rinvenimento.

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Placito Capuano 

  Fine seconda parte -

i Traduzione utilizzata in Marazzini, “La lingua italiana – profilo storico”

i Petrucci 1989: 64

i A: Carvoncello, spingi da dietro con il palo; B: A causa della durezza del vostro cuore; C: Avete meritato di trascinare sassi; D: Albertello spingi; E: Gosmario; F: Sisinnio; G: Figli di puttana, tirate

i Castellani 1976: 118

i I segni di punteggiatura sono stati introdotti dagli editori moderni, non esistono nel testo originale.