Dante Alighieri: 700 anni dopo

di Gianluigi Chiaserotti


Nella notte tra il 13 ed il 14 settembre 1321, settecento anni or sono, moriva in Ravenna Dante Alighieri.

Lo vogliamo ricordare per alcuni aspetti della sua immensa opera, e precisamente: Dante ed il Tricolore, Dante e la Lingua Italiana, Dante e l’Italia.

Un suo primo aspetto fu, senza dubbio, anche quale ispiratore della bandiera italiana nei suoi colori tradizionali: Verde, Bianco e Rosso.

E due sono i colti riferimenti a Dante.

Un primo, che in una terzina (Purg. XXX, 31-33), dedicata all’amata Beatrice, scrive:

«[…] Sovra candido vel cinta d’uliva

donna m’apparve, sotto verde manto

vestita di color di fiamma viva».

Secondo alcune interpretazioni, i colori del velo, del manto e della veste alludono alla fede, alla speranza ed alla carità: «le quali tre virtù sono solo della Teologia, e per questo sono dette teologiche» [secondo l’umanista e filosofo Cristoforo Landino (1424-1498)].

Il secondo è, senza dubbio, in Purg. XXIX, 121-126:

«Tre donne in giro dalla destra rota

venìan danzando: l’una tanto rossa

ch’a pena fora dentro al foco nota

l’altr’era come se le carni e l’ossa

fossero state di smeraldo fatte

la terza parea neve testé mossa;».

Anche qui le tre donne sono le virtù teologali: fede, speranza e carità.

Ma, per alcuni interpreti, queste tre virtù devono essere poste a fondamento della vita civile, cosa a cui teneva molto il Sommo Poeta.

Ed Infatti il 7 gennaio 1797, duecentoventiquattro anni or sono, in Reggio Emilia l’assemblea della Repubblica Cispadana decretò che il bianco, il rosso e il verde fossero adottati come i colori della bandiera nazionale, con codeste testuali parole:

«[...]Reggio Emilia, 7 gennaio 1797, ore 11. Sala Patriottica. Gli intervenuti sono 100, deputati delle popolazioni di Bologna, Ferrara, Modena e Reggio Emilia. Giuseppe Compagnoni di Lugo fa mozione che si renda Universale lo Stendardo o Bandiera Cispadana di tre colori, Verde, Bianco e Rosso e che questi tre colori si usino anche nella Coccarda Cispadana, la quale debba portarsi da tutti. Vien decretato. [...]» (Verbale della riunione del 7 gennaio 1797 del congresso della Repubblica Cispadana).

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Ma la storia del nostro tricolore ha comunque origini più lontane nel tempo.

E possiamo quindi affermare che, anche in questo, Dante ispirò, e bene, la futura bandiera italiana, simbolo di unità.

Altro aspetto dantesco è sicuramente la sua paternità della Lingua Italiana.

L’Italia è considerata da Dante Alighieri come una, pur nella diversità delle tradizioni e dei costumi dei suoi abitanti, minuziosamente elencati, regione per regione, nel suo “De vulgari eloquentia” (I, X).

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I Siciliani, gli Apuli, i Calabri, i Napoletani, i Toscani, i Genovesi, i Sardi, i Romagnoli, i Lombardi, i Trevigiani, i Veneziani, tutti elencati da Dante nel suo grande libro sulla lingua volgare, pur nella loro grande diversità, con la poesia e la letteratura fiorita tra il ‘200 ed il ‘300 hanno raggiunto ciò che cercavano, una lingua «volgare, illustre, cardinale, regale e curiale», che sembra non appartenere a nessuno perché deve essere comune a tutti.

Era l’Italia che Alessandro Manzoni (1785-1873) nella poesia “Marzo 1821” dedicata a Teodoro Köerner (1791-1813), poeta e soldato della indipendenza germanica (nome caro a tutti i popoli che combatterono per difendere o per conquistare una patria), circa sei secoli dopo Dante, auspicava «Una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor», un’Italia unita politicamente, con un solo esercito, una sola lingua nazionale, una stessa religione, una sola memoria storica, una stessa origine e identici sentimenti.

Ma sicuramente l’ultimo e fondamentale aspetto che riassume ed amplia quanto fin qui esposto è la paternità di Dante per l’Unità d’Italia.

Egli più volte afferma ciò nella Divina Commedia.

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E qui che possiamo fare certamente il parallelo tra i tre Canti politici dell’opera.

Il Sesto di ciascuna Cantica.

Il Canto VI dell’Inferno è il c. d. “Canto dei Golosi” e protagonista ne è Ciacco. Esso, rievocando le discordie intestine di Firenze, lo fa corrispondere armonicamente al Canto VI del Purgatorio, quello di Sordello da Goito, in cui Dante impreca le discordie d’Italia e quindi al VI del Paradiso in cui Giustiniano fa rivivere, in una drammatica sintesi, le secolari vicende dell’Impero.

Così che da una visione politica particolare (Firenze), la poesia dantesca si eleva gradatamente ad una visione politica nazionale (Italia) più ampia e quindi universale (Impero).

La grandezza dell’Italia nel passato e la penosa situazione che ha sotto gli occhi portano il Sommo Poeta ad una violenta invettiva contro il nostro Paese.

Ed è proprio nel Canto VI del Purgatorio, con l’affettuoso incontro di due concittadini mantovani, i poeti Sordello da Goito (1200/1210 ca.-1269) e Virgilio (70 a. C.- 19 a. C.), che vien suscitata in Dante un’amara e spietata apostrofe contro l’Italia del suo tempo, terra di tiranni, di dolore e di malcostume, simile ad una nave senza capitano nel mare in tempesta: «Ahi, serva Italia, di dolore ostello, […]/nave sanza nocchiere in gran tempesta,/non donna di provincie, ma bordello! » (Purg. VI, 76-78).

Gli abitanti di una medesima città si odiano e si dilaniano e non c’è pace in nessuna zona.

L’opera dell’Imperatore Giustiniano, che aveva dato adeguate leggi all’Italia, risulta inutile, perché le leggi non vengono fatte rispettare.

Gli ecclesiastici, invece di dedicarsi alle cose sacre, si appropriano del potere laico, in mancanza dell’autorità politica voluta da Dio stesso per tenere a freno l’Italia, simile ad una cavalla selvaggia.

Questo è il Canto amato dai protagonisti del nostro Risorgimento.

Ma Dante è anche colui che, per primo, delinea i confini della nostra Penisola.

Egli indicò chiaramente i confini nazionali della nostra Patria, includendovi già nel ‘300 l’Istria ed il Tirolo Meridionale.

Celebri i versi nel Canto IX (112-114) dell’Inferno: «[…] Sì com’ad Arli, ove Rodano stagna,/sì com’a Pola, presso del Carnaro/ch’Italia chiude e suoi termini bagna, […]».

Intuì, interpretò ed alimentò la coscienza nazionale.

Ne deplorò le divisioni interne.

Portò la lingua e la letteratura italiana ad un altissimo prestigio che dura tuttora.

Faccio ora concludere al Poeta questo mio pensiero, che certamente lo celebriamo in un momento molto triste e particolare per la nostra Italia, e precisamente con le parole di Ulisse, che esorta i suoi, in Inf., XXVI, 118-120: «[…] Considerate la vostra semenza/fatti non foste a viver come bruti/ma per seguir virtute e canoscenza.»

L’Italia è forte, è una Nazione solida, e supererà, ed alla grande, questo momento inatteso, inaspettato e non voluto.

In ogni epoca, l’umanità ha dovuto combattere contro il c.d. “male”, che potevano essere i barbari nell’antica Roma, gli infedeli ai tempi delle Crociate, la cupidigia anche, un’epidemia come in questi giorni.

Il Nostro è «[…] l’apostolo ed il profeta dell’Italia che verrà. Dopo di lui verranno Petrarca, Machiavelli, Ariosto, quindi Vico, Alfieri, Foscolo, Leopardi, […]» Carducci e Pascoli, «[…] e col tempo i grandi sognatori d’Italia, fino agli scrittori, i poeti ed i pensatori risorgimentali […] fu Dante il vero fondatore d’Italia» come limpidamente scrive Marcello Veneziani nel suo “Dante, Nostro Padre” (Vallecchi, Firenze 2020, pag. 13).

Dante è il simbolo della modernità e lo ricollega ai teorici del Risorgimento, come poc’anzi ho detto, che riusciranno a fare l’Italia, anche se rimarrà, e rimane ancora oggi, la necessità che si sentano italiani quanti hanno avuto l’onore di nascere nel paese più bello del mondo, il faro della civiltà che da Roma si è esteso nell’Occidente cristiano eppoi oltre gli Oceani.

Un pensiero finale sul 25 marzo, il quale, dal 2020, è il c.d. “Dantedì”.

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Infatti questa data sarà dedicata annualmente al Sommo Poeta.

E’ stata istituita proprio in vista del corrente anno, settecentesimo anniversario dalla morte del Sommo Poeta.

E’ stato scelto il 25 marzo in quanto, secondo alcuni studiosi, è in giorno in cui Dante iniziò il suo fantastico viaggio nell’Oltretomba [25 marzo 1300 (Anno Giubilare) giorno dell’Annunciazione, quindi dell’Incarnazione di Gesù].

Mentre per altri studiosi, tra cui lo scolopio Luigi Pietrobono (1863-1960), il “viaggio” iniziò nella notte tra il 7 ed il giorno 8 aprile 1300 (Giovedì e Venerdì Santo) per terminarlo alla mezzanotte del 14 aprile (Giovedì dopo la Santa Pasqua).

Infatti il Poeta impiega: una notte ed un giorno nella “Selva Oscura”; una notte ed un giorno nel visitare l’“Inferno”; una notte ed un giorno nel “passaggio dal centro della terra alla spiaggia del Purgatorio” (superficie dell’altro emisfero); tre notti, tre giorni e la metà d’un altro giorno nel “Purgatorio”, e ventiquattrore nel “Paradiso”.

In tutto: ore 174, cioè 7 giorni e 6 ore.

Concludo con le parole di Niccolò Tommaseo (1802-1874), linguista, scrittore e patriota: «Leggere Dante è un dovere; rileggerlo un bisogno; sentirlo è presagio di grandezza.».