Di cioccolato caldo e favorite di Corte

di Mattia Scavuzzo

 

Era il 1763 a Torino, quando il Caffè Bicerin servì per la prima volta ai suoi clienti una calda bevanda corroborante a base di caffè e di ingredienti gourmet, il cui nome è tutt’oggi sinonimo di raffinatezza.

La settecentesca bevanda “bavarèisa” (chiamata oggi semplicemente Bicerin) che delizia i palati dei piemontesi, viene ancora proposta nel rispetto dell’autentica ricetta originale, che prevede una base di caffè, crema di latte e (immancabile oggi come lo era nel 1700) cioccolato, saldo anello temporale tra l’antica e la moderna arte culinaria.

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Sebbene nel 18esimo Secolo il cacao fosse reperibile sul mercato solamente sotto forma di polvere o pasta, ciò che può suscitare stupore è il grande assortimento di gusti in cui la sua variante liquida veniva servita.

Chi aveva il compito di servire in tavola nelle ricche famiglie d’epoca il cioccolato caldo teneva conto di semplici ma essenziali passaggi di preparazione, fondamentali per la riuscita di una bevanda che nel 18esimo Secolo veniva consumata quotidianamente, dalla colazione al fine pasto.

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La polvere (o la pasta) di cacao veniva stemperata con acqua calda e zucchero al fine di formare uno sciroppo, successivamente versato in un apposito contenitore a forma di bricco (la “cioccolatiera”) assieme a del latte caldo. Azionando un frullino a mano inserito nella parte superiore della cioccolatiera, lo sciroppo di cioccolato si univa montandosi assieme al latte caldo: era questo il passaggio più importante di tutto il procedimento, tanto che spesso i padroni di casa gradivano eseguirlo essi stessi quando erano presenti gli ospiti, tra l’onore per la compagnia e la scenicità del gesto.

Sontuose cioccolatiere di porcellana finemente decorata venivano servite in tavola, a dimostrazione dell’agiatezza della famiglia in cui l’ospite (o lo stesso famigliare) si trovava. Le cioccolatiere in rame erano invece usate in cucina, dove il cioccolato veniva talvolta già versato in tazze appositamente prodotte per la sua consumazione, la cui capienza era adeguata all’esclusività del prodotto stesso, sopratutto quando l’aromatizzazione del cioccolato caldo era paragonabile a quella dei profumi più esclusivi.


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Cioccolato caldo al gelsomino, alla lavanda, ai fori d’arancio, alla mandorla: aromatizzare il cioccolato era un dettame sapientemente appreso dai profumieri, che nei loro ateliers preparavano tinture ed acque floreali per impreziosire una bevanda comune per i ceti alti, che non badavano a spese per gli ingredienti più rari, come il sontuoso sentore di ambra grigia di capodoglio.



L’alta profumeria del 18esimo secolo prevedeva sovente nelle composizioni olfattive l’ambra grigia, classificata all’epoca come sentore muschiato di derivazione animale.

Una resina proveniente dallo stomaco del Capodoglio che, lavata dalle onde del mare e trasportata alla deriva, dopo una lunga essiccazione al sole conferisce alla tintura in spirito di vino in cui viene infusa un potente e persistente odore. Un aroma di vaniglia salata, di mandorla, incenso e legni asciutti: una sinfonia olfattiva proveniente da un unico e prezioso ingrediente, la cui ardua reperibilità era ben nota ai profumieri. Nel 18esimo secolo, i commercianti di profumi remuneravano abbondantemente coloro che fossero in grado di procurarla, tanto da indurre i marinai ad una vera e propria caccia all’ambra grigia, che finiva inesorabilmente con una spietata morte dell’animale per prelevarla direttamente dal suo stomaco.

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Una tazza di cioccolato aromatizzato alla tintura di ambra grigia (spesso chiamata con il nome di “ambracane” nei manuali italiani d’epoca) era da considerarsi un lusso equiparabile alla commissione di un abito, considerando i numerosi poteri che le si attribuivano. Potente afrodisiaco, portentosa cura contro la frigidità, pozione magica per tutti i tipo di amori: nel 18esimo Secolo era di fatti comune e comprovata opinione che l’arte culinaria e l’arte profumatoria potessero contribuire con la loro resa sensoriale (attraverso l’uso di determinati ingredienti) a migliorare la sfera affettiva, tanto che anche famosi personaggi della Corte di Versailles promulgarono ricette e composizioni olfattive per ottimizzare le armonie di coppia. Marie-Jeanne Bécu, contessa du Barry (favorita di Luigi XV), istruì ella stessa un cuoco di corte sulla scoperta di nuovi ingredienti afrodisiaci, al fine di proporre all’amato una pietanza che potesse garantire il vigore sessuale del non più giovane sovrano. Ella ordinò che al sovrano venisse servita la “crème Du Barry”, una zuppa a base di cavolfiore bollito a lungo nel latte vaccino, frollato ed aromatizzato con del macis in polvere (spezia proveniente dal rivestimento esterno del seme della noce moscata, considerato il tocco stuzzicante del piatto). In seguito ad una vera e propria passione nel 18esimo secolo per il gusto esotico, sentori come il macis e noce moscata trovarono ampio uso anche nell’arte profumatoria, tanto che la Du Barry elesse come degno sostituto del suo profumo preferito (l’ “Eau de Cologne, l “Acqua di Colonia”) una fragranza dal sentore orientale a base di gelsomino, rosa, iris, fiori d’arancio, note di radice di angelica, macis e (naturalmente) ambra grigia: l’”Eau de Chypre composée”, l’“Acqua di Cipro”, composta dal profumiere di corte Jean Louis Fargeon.

Un profumo che la Du Barry indossava quotidianamente al fine di ispirare l’amato sovrano, che trovò nella contessa una distrazione al dolore per la perdita della precedente amante Madame de Pompadour, leale consigliera e fedele favorita.

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Sentori e sapori raffinati, quelli provenienti dalle più elaborate ed esclusive ricette del 18esimo Secolo, che soddisfano ancora oggi i fugaci sensi del gusto e dell’olfatto, quando vengono sottoposti e stuzzicati oggigiorno con prelibatezze che costituivano un tempo una vera e propria differenziazione sociale.