Francesco Querini e quell’Italia coraggiosa e bella

di Gaspare Battistuzzo Cremonini


La signora, turista alla ricerca del varco d’entrata per la Biennale di Venezia, è evidentemente disturbata dalla presenza di quella statua. Io sono giusto davanti ad essa, come spesso mi capita, quando passo per il Largo Marinai d’Italia: non lascio mai andare l’occasione di dare un saluto al nostro esploratore.

- Mi scusi, - chiede la donna, imbarazzata, - ma lei sa chi è?

In effetti, il basamento della scultura non riporta scritte visibili. C’è solo un uomo, infagottato in abiti polari, contornato da una piccola muta di cani husky e seduto su di una cassetta di legno.


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- Sissignora, - le rispondo, - si tratta di Francesco Querini, disperso al Polo Nord con la Spedizione Duca degli Abruzzi, esattamente cento e venti anni fa.


E’ davvero un peccato che così pochi italiani conoscano il monumento dedicato al Tenente di Vascello Querini. In una città come Venezia, che è tutto arabesco, florilegio bizantino e merletto multicolore, sono proprio le stranezze, le curiosità, le aporie che val la pena d’andare a ripescare. Ed il monumento al conte Querini una stranezza, un wunder, lo è per davvero: con quei cani husky e l’espressione del volto di Querini così vivida, sembra uscito da un fotogramma di Balto, il film sul cane mezzo lupo che salva i bambini di Nome da un’orribile epidemia di difterite.


Nel 1899 Luigi Amedeo di Savoia, più noto come il Duca degli Abruzzi, mise insieme una spedizione di scalatori, scienziati, marinai, guide alpine; comprò una vecchia baleniera (con l’aiuto dello zio Umberto I), la riattò a rompighiaccio e la chiamò Stella Polare. E da Cristiania, ossia Oslo, se ne partì alla volta del Polo Nord. Obbiettivo: battere Nansen, Amundsen e gli altri esploratori polari piantando il tricolore d’Italia alla più alta latitudine artica mai raggiunta da essere umano.


La spedizione ebbe successo. Il futuro ammiraglio Umberto Cagni – che nello slancio finale sostituì il Duca, in quanto a questi avevano dovuto essere amputate due dita, causa la cancrena procuratasi per una futile distrazione, nella discesa di un vallone artico, durante la quale aveva perduto un guanto, - giunse a toccare i famosi 86° 33’ 49’’ il 25 aprile 1900, battendo Nansen ed inscrivendo per sempre l’Italia nella storia delle esplorazioni polari.


Cagni può tornare alla Baia di Toeplitz, dove il Duca ed il resto della spedizione attendono, al campo base. Così farà il dottor Achille Cavalli Molinelli, il medico, con la sua squadra. Solo quando giungeranno in vista della capanna con i due fumaioli sapranno che Francesco Querini, con il suo gruppo, non ce l’ha fatta. Non è mai tornato. Lui, Ollier e Stökken sono ancora lì, al Polo Nord, forse caduti in qualche crepaccio o magari soffocati da una tormenta di neve.


Il tenente Querini era nato a Milano ma la sua era un’antica famiglia del patriziato veneziano che aveva dato alla Repubblica Serenissima tante figure di spicco. Francesco Querini, oggi forse come non mai, oggi che la città è invasa da orde di turisti low-cost, dileggiata da imbrattatori occasionali che neppure capiscono quel che vanno facendo, abitata da saccopelisti in ogni angolo, proprio oggi il giovane Querini rappresenta una Venezia e un’Italia più belle, quelle di inizio novecento che, con tutti i limiti del caso, avevano però voglia di lanciarsi verso il futuro, di essere protagoniste, di giocare un ruolo e non semplicemente di divenire discarica e periferia dell’impero.


Non addio, ma arrivederci!’ aveva detto il tenente Querini ad Umberto Cagni, quando le due squadre si erano separate. Era sicuro che ce l’avrebbe fatta. E come dargli torto? Il Polo poteva essere un luogo pericoloso, impressionante ma anche ed insieme un altrove dove il Sublime burkeiano era ancora possibile, dove ci si addormentava sotto una volta celeste perpetuamente illuminata da ‘cortine ondeggianti in tutti i sensi’: le famose e sinuose aurore boreali.


Francesco Querini aveva fede nella Scienza. Come ottant’anni prima di lui un giovane inglese, Charles Darwin, s’era imbarcato sulla Beagle in veste di naturalista, anche il nostro in quella spedizione verso l’ ‘irresistibile Nord’ aveva il compito di raccogliere minerali, esemplari di flora e fauna e compilare un catalogo scientifico dell’impresa.


Oggi il monumento a Querini ed ai suoi cani da slitta non è che un pezzo di pietra, di foggia curiosa, in una città che può offrire ben altro. Allora forse vale la pena ricordare che questi uomini, con le attrezzature d’allora, si muovevano sul pack malfermo, mangiavano pemmican, talvolta abbattevano e divoravano i loro stessi cani, ad una temperatura media di – 35° sotto zero.


Forse è giusto ricordare che Umberto Cagni si gelò un indice mentre stava per raggiungere il Nord magnetico: da buon soldato, non disse nulla ai compagni e proseguì; quando tornarono indietro, era troppo tardi per curare quell’estremità perduta ed egli si amputò l’arto da solo con una forbice.


Se essi dormivano, lo facevano in sacchi a pelo duri e freddi come il marmo; si spostavano su blocchi di ghiaccio in continuo movimento, col rischio di cadere in acqua e morire in meno di due minuti; marciavano in tempeste di neve così fitta che talvolta giravano a tondo senza rendersene conto.


Sissignora, - le rispondo, ora, più volentieri, - so chi è quel tale, e spero che da oggi lo tenga a mente anche lei: era uno dei ragazzi migliori di questa Italia, che non è fatta solo di Colosseo e Palazzo Vecchio, di campi e callette, di spiagge e mare e ombrelloni; era fatta anche di persone, di giovani precoci, capaci di scambiare la vita per la gloria. Facciamo in modo che essa resti imperitura.