La proprietà nel periodo liberale: Cavour, Giolitti, Einaudi

di Giovanna Giolitti


La prima Costituzione dello Stato Italiano fu lo Statuto Albertino, promulgato nel 1848 da Carlo Alberto Re di Sardegna, documento i cui benefici vennero estesi al neonato Regno d’Italia nel 1861.

Questo documento costituisce l’apertura della Monarchia Assoluta allo Stato Liberale. Si trattava di una Carta Costituzionale concessa dal Sovrano ai suoi sudditi, quale espressione della sovranità del Re. Si rese necessaria, quale patto difensivo susseguente ai timori portati dalle insurrezioni in nome del socialismo dai Moti Rivoluzionari.

Il timore di uno sconvolgimento sociale portò ad un legame strategico fra la Real Casa e la Borghesia da un lato, contro l’eventuale rivoluzione di impronta socialista, come nel 1848 avvenne in Francia.

Da qui la nascita della Camera dei Deputati (che rappresentava la Borghesia) ed il Senato (il principio aristocratico) caratterizzante il passaggio da una Monarchia di tipo Assoluto ad una Costituzionale.

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In questo momento storico vengono riconosciuti alla Borghesia una serie di diritti: ex multis il diritto di libertà, il diritto di proprietà, nonché come già anticipato l’elezione dei propri rappresentanti alla Camera. È l’embrione di uno Stato che si ispira alla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, vengono così riconosciuti i diritti inviolabili con possibilità di limitazione degli stessi a mezzo di leggi.

Ça va sans dire che la garanzia dei diritti non operava in favore di tutti i cittadini, ma solo della classe dominante, che disponeva parimenti del potere legislativo.

Fra i diritti inviolabili spicca la proprietà privata, principio alla base del sistema economico liberale (liberismo) basato sull’impresa privata e sulla libertà di concorrenza.

Nell’Ottocento lo Stato doveva garantire la libertà del mercato preservando le condizioni della libera concorrenza (evitando monopoli) e reprimendo o limitando le agitazioni dei lavoratori (scioperi).

L’art. 29 dello Statuto Albertino si trova nel capitolo Dei diritti e dei doveri dei cittadini, e così recita: “Tutte le proprietà, senza alcuna eccezione sono inviolabili.

Tuttavia, quando, l’interesse pubblico legalmente accertato lo esiga, si può essere tenuti a cederle in tutto o in parte, mediante una giusta indennità conformemente alle leggi.”

In questo mio breve intervento prenderò in considerazione il liberismo e i principi liberali nella politica dei tre grandi Statisti Piemontesi: Cavour, Giolitti ed Einaudi.

Cavour, folgorato dalle rivoluzioni borghesi avvenute in Francia e nei Paesi Bassi fece suoi i principi ispiratori, tanto da porli a base della sua formazione politica liberale e liberista. Fondò con cesare Balbo “Il risorgimento” carta stampata che vide fra i suoi soci gli zii di Giovanni Giolitti (Melchiorre e Luigi Plochiù)

Nel momento in cui Cavour assunse l’incarico di Ministro dell’Agricoltura e l’interim alle Finanze col governo D’Azeglio, spicca per una serie di riforme economiche ispirate da un’idea liberista della competizione economica, avente l’obiettivo di modernizzare lo Stato Sabaudo e portarlo ai livelli delle grandi potenze Occidentali.

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In particolare, fu promotore di riforme agricole, con fruizione di fondi statali che portarono benefici allo stesso Cavour, quale proprietario terriero. Il di lui padre fu dapprima amministratore della grande tenuta dei Principi Borghese e dopo pochi anni ne divenne proprietario.

Cercò infatti, di promuovere i punti forti per un rinnovamento della economia piemontese, puntando su riforme che non solo riguardavano l’agricoltura, ma anche l’industria ed il commercio creando così un circolo virtuoso.

Per quanto attiene all’agricoltura si dispose per un maggior uso di concimi chimici e venne compiuta una vasta opera di canalizzazione atta a facilitare l’irrigazione dei campi ed allo stesso  tempo il trasporto dei prodotti della terra.

L’Industria venne potenziata con aperture di nuove fabbriche ed col rinnovamento di quelle già esistenti, come ad esempio quelle tessili.

Per quanto riguarda il commercio, invece vennero stipulati accordi commerciali con la Francia ed i Paesi Bassi tra il 1851 ed 1858, portando in auge il libero scambio.

Tutto ciò con un rinnovamento del sistema fiscale basato su imposte indirette e dirette; ed il potenziamento delle Banche fece sì che il Piemonte uscisse da una sorta di isolamento, frutto di anni di stasi.

La precoce morte dello Statista impedì di confermare le ambizioni ed i conseguenti esiti delle scelte politiche, amministrative e militari, ma ciò che è indubitabile è l’eredità storica che lasciò: la dedizione, il rispetto per lo Stato e le Istituzioni. Tutti valori comuni a Giovanni Giolitti.

Il bisnonno, proveniente da una famiglia borghese - ricordo che il padre svolgeva la mansione di cancelliere presso il Tribunale di Mondovì -, sposò Enrichetta Plochiù, di famiglia aristocratica (era figlia di quel Jean Baptiste Plochiù insignito della Legion d’Onore da Napoleone Bonaparte).

Statista che esordì la propria carriera con incarichi nella amministrazione pubblica, così da renderlo esperto conoscitore dell’apparato burocratico di talché governò, a ragion veduta, compiendo riforme ad ampio spettro.

Inoltre, fu agevolato dalla sua grande capacità valutativa sia delle circostanze fattuali, che delle persone. Già il Re Umberto apprezzò la calma con cui il bisnonno affrontava le problematiche sottoposte alla sua disamina, ma ancor più aveva un forte senso della realtà italiana, consapevole delle risorse disponibili. Era un uomo asciutto e pragmatico, capace di conciliare le esigenze della Monarchia con gli umori del popolo, dotato di grande umanità e senso di giustizia.

Per queste sue peculiarità il bisnonno tenne sempre al ruolo di Ministro degli Interni, poiché era il mezzo per avere il polso del potere, anche a tramite la rete prefettizia, con cui sorvegliava anche i luoghi più lontani dal Governo Centrale con una reale consapevolezza circa il gradimento o viceversa l’insoddisfazione della propria linea politica.

Gli interventi del bisnonno in ambito della proprietà privata mi sono apparsi interessanti, anche sotto un punto di vista legato all’attualità. Ho scelto di occuparmi in particolare delle scelte operate in susseguenza del terremoto di Messina del 1908. Nei discorsi introduttivi alla presentazione del disegno di legge al Parlamento, così come sapientemente e oserei dire in modo certosino “recuperati” dall’Archivio centrale dello Stato in Roma dal Prof. Aldo A. Mola, si evince un interesse a che venisse approvata nell’immediato una erogazione di uscite, al fine di ripristinare quanto prima le situazioni tragiche conseguenti i terremoti.

Il bisnonno governò con grande risolutezza, agì su più fronti: 1) fece concentrare a Messina il dispiegamento di tutte le truppe ed il materiale contenuto sull’isola, 2) inviò la divisione navale dalle coste della Sardegna. Fu l’unico a rimanere a Roma per gestire la situazione mentre i ministri (Orlando-Bertolini) nonché il Re andarono sui luoghi della tragedia. La prontezza decisionale, la si può intravedere laddove fece firmare al Re prima della sua partenza lo stato d’assedio, cosicché il Gen. Mazza avesse la direzione di ciò che oggi chiameremmo l’Unità di Crisi.

D’altro canto il bisnonno agì tempestivamente preparando un disegno di legge, che presentò alle camere il 12.1.1909 con l’obiettivo di ricostruire Messina nel più breve tempo possibile, sulle rovine.

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In casi analoghi, ahimè il bisnonno fu parimenti pragmatico, come ad esempio in occasione del terremoto del 1887 che colpì e flagellò le province di Genova, Imperia e Cuneo. Con il disegno di legge presentato nella seduta del 27.6.1893, all’epoca primo ministro e Ministro degli Interni, sottoponeva al Parlamento la disamina di una legge che acconsentisse ad una proroga quinquennale a favore delle zone colpite dal terremoto, affinché avessero il tempo di perfezionare gli espropri ed il piano ricostruttivo, onde evitare che “i denari spesi finora rappresenterebbero un cumulo di sacrifici senza utili e senza compenso”. Chiedeva altresì che venisse approvato il disegno di legge, affinché “il Governo del Re” resti autorizzato a concedere con decreto reale le proroghe che saranno dimostrate necessarie e per quel termine che occorrerà purché non superiore ai 5 anni, onde evitare di presentare tanti disegni di legge speciali per ogni situazione che venisse a presentarsi e connotata da analoghi elementi di fatto ( L. 6.8.1893 n. 450)

Di grande rilievo le osservazioni in materia di espropriazioni, trattate nello specifico da Einaudi ne “Il problema delle abitazioni”, in cui Einaudi critica aspramente la legislazione vincolatrice degli affitti, tacciandola di aver creato un maggior disagio e lagnanze allargate oltremodo rispetto al beneficio immediato e ridotto. Sviluppò altresì due esiti secondo la disciplina liberistica o collettivistica analizzando i benefici di ciascuna dottrina.

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Nella disciplina liberistica, che qui preme esplicare, il legislatore resta esterno ed estraneo alle scelte contrattuali delle parti in ordine alla determinazione del prezzo del canone locatizio. Sostiene infatti che, seguendo tale criterio, vi sarebbe un adattamento automatico fra domanda e offerta in base alla disponibilità economica di ciascuno. Ovviamente il suddetto principio non opera automaticamente, ma occorre che si sviluppi nel lungo tempo ed entro i limiti della distribuzione della ricchezza esistente in quel dato momento.

Ciò che influisce sulla domanda e l’offerta è il prezzo. Al variare del prezzo in termini di ascesa o discesa varia l’offerta delle abitazioni sul mercato, fino al raggiungimento di una eguaglianza tra domanda e offerta.

È un fenomeno che crea un circolo virtuoso per così dire: se il reddito è minimo per raggiungere le condizioni per una vita dignitosa saranno attuati rimedi quali scioperi, in modo tale da riportare ad un naturale equilibrio della distribuzione economica.

Il pregio del sistema liberistico si rinviene nella autoregolamentazione, facendo evolvere i flussi e le scelte economiche; ad esempio: se vengono costruite troppe case i fitti diminuiscono di tal guisa da rendere l’edilizia poco redditizia. Come si ovvia a siffatta situazione? Nel lungo termine col crescere della popolazione fino ad avere una occupazione di tutti i locali disponibili con prezzi sufficienti a coprire le spese di costruzione ed interessi bancari. Col sistema collettivistico occorrerebbe avere il polso delle variabili indipendenti costantemente ed in modo preciso, in modo da parametrare i prezzi alle esigenze della collettività. Ma ciò è quasi impossibile da effettuare nella pratica.

L’intervento statale che mira a vincolare il prezzo senza vincolare il reddito, insomma non tiene conto della circostanza per cui chi ha maggior disponibilità con i prezzi vincolati ne trae beneficio a discapito dei redditi più bassi. È una situazione che non risolve sul lungo periodo, anzi crea un maggior disagio laddove il principio ultimo diventa il maggior guadagno senza apportare migliorie. La legislazione vincolatrice si fondò sul diritto di insistenza ed il divieto di aumento degli affitti, ed insieme con la svalutazione della lira provocò le condizioni per cui vi fosse aumento di altri consumi rispetto al mercato edilizio, che si assestò per un lungo periodo.

Se i fitti avessero avuto un adeguamento col reddito, la domanda di case si sarebbe ristretta in correlazione ai medesimi.

Il principio vincolistico creò ulteriori problemi, laddove venne applicato non solo ai contratti in essere ma anche ai nuovi. Creando altresì una crisi nell’industria edilizia in favore degli altri settori. Il principio liberistico è l’unico sistema concreto per donare nuova linfa alla proprietà edilizia con una libera contrattazione che riequilibri le posizioni economiche con maggior soddisfazione di un largo numero di utenti.

Se si pensa alla disciplina delle locazioni così come disciplinata dal codice civile, la L. 392/1978 (più nota come legge sull’equocanone) e la L. 431/1998 si può riscontrare che il pensiero di Einaudi è del tutto attuale. Fino al 1998, infatti, data in cui entrò in vigore la legge 431/1998, trovava applicazione la legge sull’equocanone. Da quel momento in poi vi fu un revirement del legislatore che lasciò maggior libertà di contrattazione alle parti.

Nella sostanza la L. 392/1978 prevedeva un complesso meccanismo di determinazione del canone con lo scopo di renderlo equo. I canoni locatizi determinati in base alla legge venivano ad essere considerati completamente fuori mercato con una evidente penalizzazione per i locatori. Ciò causò un sistema perverso in cui vi era una doppia contrattazione, una regolare ex lege, l’altra in nero. L’emersione di questo fenomeno condusse alla L. 431/1998 con la determinazione del canone rimessa alla libera contrattazione delle parti.

La proprietà, diritto costituzionalmente garantito, deve essere disciplinata secondo il principio del bilanciamento, con un legislatore che si fa parte attiva per determinare alcuni parametri al fine di rendere i diritti efficaci e non astratti. Le limitazioni eventualmente previste da norme non mettono in pericolo la libertà, ma la radicano nel “sociale”. Solo in questo modo può avere reale esplicazione l’ordinamento liberale di una sfera di vita così come inteso dalla Costituzione.

Da qui invito ad una riflessione che sarà poi oggetto di un mio futuro articolo su Costituzione, diritti fondamentali dell’uomo, interventi dello Stato e collaborazione fra Stati, argomento che ha diverse sfaccettature e tocca gli ambiti i più svariati, seppur aventi tutti al proprio fulcro l’Uomo-Cittadino.