La scrittura e il fascino della stilografica
di Eleonora Vicario
Un libro ben rilegato, con raffinati caratteri stampati, le righe ordinate, l’odore della carta, ci provoca emozioni, stimola elaborazioni del pensiero e insegna certamente qualcosa; può essere sottolineato per ricordarci in particolare un passo o può avere una copertina che rimarrà impressa per sempre nella nostra mente. Ma quando troviamo in uno scatolone dimenticato la lettera di una persona che abbiamo amato intensamente, vedere la sua scrittura…
Quella grafia ha la stessa forza evocativa della sua voce: la riconosciamo immediatamente e guardandola ricorderemo il suo volto, la sua gestualità, gli ammiccamenti, la sua risata perché la grafia è unica e inconfondibile.
Una e-mail arriva immediatamente, può essere sintetica e può averci fatto comunicare rapidamente un nostro pensiero; può avere emoticon che descrivono simbolicamente le nostre emozioni mentre la grammatica e la sintassi possono essere trascurate.
Ma che fretta abbiamo se vogliamo comunicare il nostro affetto o le nostre riflessioni a qualcuno?
Scrivere con la penna non è solo rendere concreta un’idea portandola fuori da noi; è darle forma su un foglio, è lasciare un segno del nostro essere qui con le emozioni di questo momento, impedendo la smaterializzazione digitale delle nostre sensazioni e dei nostri ricordi. Quando scriviamo, la nostra mano agisce obbediente all’impulso del cervello, ma entrano in gioco anche le sensazioni di quell’istante, il nostro stato d’animo proprio di quel momento. La nostra grafia infatti non è sempre uguale: a volte il nostro tratto è incerto o superficiale, altre volte più marcato, altre rapido oppure arrotondato. Dipende dal tipo di penna, se è una biro o una stilografica, dal pennino e dalla sua flessuosità, dal tipo di carta e dal suo spessore ma soprattutto dal nostro umore. Quindi è lo specchio non solo di chi siamo ma anche di come stiamo. Un foglio bianco ci mette in contatto con le nostre emozioni, con le nostre ombre o con le nostre certezze e quello che scriveremo – come lo scriveremo - provocherà emozioni anche in chi ci leggerà.
Scrivere bene, poi, in modo elegante, facendo attenzione ai canoni estetici della Bellezza, al Sublime, darà alla nostra pagina un valore a sé; perché la Bellezza è già un valore: è una forma di cura, è il rispetto sia per il gesto sia per chi, quel gesto, riceverà. Curare la grafia, trasformandola in calligrafia è fare arte, è riportare l’attenzione sulla Bellezza e sull’Armonia fin troppo trascurate nel nostro mondo frettoloso e sciatto. E’ comunicare all’altro che si pensava veramente a lui mentre si scriveva, così come si ama apparecchiare una tavola in modo accurato ed elegante per accogliere l’altro con tutto l’amore che sappiamo dimostrare.
“Penna viene dal latino pinna (pinna e ala) indica la direzione, cioè il senso. È una radice antica PETE – “tendere verso una meta” (da cui viene anche chiedere, come in petizione, e competizione). Un moto spaziale e quindi pennuto. [...] La penna stilografica è ancora molto vicina alla materia dell’espressione: alla punta e all’inchiostro. La stilografica resta uno stilo cioè un mezzo di incisione e non di solo tratteggio: il gesto ha un suo stile, varia la forza e lo strumento somiglia alla mano, così come il filo che lascia uscire. [...] Con la stilografica siamo ancora vicino all’inchiostro, alla sua densità e al suo colore”[1]
Considerando la scrittura da un punto di vista scientifico, possiamo affermare che è regolata da processi corticali e sottocorticali (gangli della base e cervelletto), coinvolgendo interazioni di diverse regioni neuronali. Scrivere a mano è sicuramente un’azione faticosa che allinea respiro e movimenti e che è la risultante della postura sulla sedia, dell’attività dei muscoli agonisti e antagonisti per il movimento della spalla, del braccio, del gomito, dell’avambraccio, della mano: il polso si deve muovere agilmente e le dita che afferrano e dirigono la penna devono stabilire un ritmo, debbono decidere quanto premere per lasciare il segno sulla carta, perché il pensiero affondi nelle sue fibre in modo da marchiare quell’immagine di me unica, tanto che io stessa non potrei mai ripeterla uguale.
Le proprietà formative e terapeutiche della scrittura a mano sono evidenti principalmente nell’infanzia, durante lo sviluppo, perché questa pratica impegnativa è utile a stimolare la concentrazione e per insegnare a rallentare i tempi. Sempre meno ragazzi sanno scrivere in corsivo correttamente, preferendo lo stampatello, più semplice nella composizione grafica. Si è visto però che chi usa la penna e impara a scrivere in corsivo, distingue le lettere dell’alfabeto con più rapidità e ha più facilità nel comporre i testi. Forse ritornare alla scrittura servirebbe anche a contrastare l’impoverimento linguistico generato dall’eccessivo uso del web e a darsi una disciplina, a eseguire un ordine, a rispettare una regola: perché disciplina e costanza sono alla base dell’apprendimento calligrafico.
Quando i bambini scrivono a mano libera, non solo producono più parole e più rapidamente di quanto facciano su una tastiera, ma esprimono anche più idee in quanto l’immaginario e il pensiero astratto non vengono privati di un esercizio fondamentale per il loro sviluppo. Nei giovani e negli adulti, poi, scrivere con calma riduce lo stress e stimola la creatività, mentre prendere appunti a mano costringe a stare più attenti, concentrati, cosa che permette di elaborare la sintesi di ciò che si sta ascoltando.
Nella Demenza senile, soprattutto associata al Parkinson, la scrittura è una delle prime perdite. Ho nascosto in un cassetto – e non ho voglia di cercarlo – un foglio di carta dove mio nonno, brillante Colonnello dell’Esercito Italiano, negli ultimi anni della sua vita scriveva ossessivamente il suo nome, quasi mai in modo completo e corretto. La disperazione che ho letto in quel foglio non potrò dimenticarla: era un uomo che attraverso la scrittura tentava di ritrovare se stesso.
[1] AA.VV., Il discorso del design. Pratiche del progetto e saper-fare semiotico, a cura di Dario Mangano e Alvise Mattozzi, E|C, Serie Speciale, Anno III, nn. 3/4, 2009, pp. 43-48.