L'Ospedaletto e la Principessa di Castellaci

di Federico Sulsenti

Il 28 dicembre è caduto l’anniversario del tremendo terremoto che nel 1908 distrusse Messina, allora detta il Bosforo d’Italia, e Reggio Calabria. Un terremoto del 10° grado della Scala Mercalli (7,1 della Scala Richter), con relativo maremoto, che provocò la morte di circa 80.000 persone nella sola città di Messina

I soccorsi arrivarono dopo giorni, cosa che dati i tempi non può esser considerato ritardo. Il Re Vittorio Emanuele III e la Regina Elena vennero in Sicilia, disponendo che numerose navi della Regia Marina intervenissero lungo le coste siciliane e calabresi. Allora non esisteva la Protezione Civile, ma, grazie all’importanza che aveva la nostra Nazione e grazie all’amicizia e alle parentele tra i Savoia e più di una casa regnante estera, si assistette ad una meravigliosa gara di solidarietà che fece affluire in quelle acque parecchie navi russe e inglesi. Testuali parole di uno dei primi dispacci furono: “ogni aiuto è inadeguato alla gravità del disastro”.

Io non sono qui a parlare del terremoto di Messina, anche perché non ne avrei la necessaria competenza. Tuttavia esso provoca in me un moto di ricordi, di affetti campanilistici e di considerazioni sulla attuale pratica della revisione delle spese o, come è moda definirla, “spending review”, che dura da troppi anni e che ha contribuito a far diventare gli ospedali “aziende ospedaliere” e, di conseguenza, i loro amministratori manager d’impresa. Tali stati d’animo si tramutano facilmente in allergia per il principio del “politicamente corretto”, che sarebbe più onesto definire intermittente favoritismo di una o dell’altra parte politica, il quale dagli anni ’90 oltre ad essere guida dei suddetti manager è uno degli indici di gradimento nella scelta dei commissari governativi delle A.S.P. (recente esempio è la caduta in disgrazia di Bertolaso e quella ridicola girandola di nomi che non andava a buon fine per la nomina del commissario alla Sanità della Calabria).

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Ecco allora che vorrei semplicemente tracciare un discorso sul ridicolo contrasto tra la spending review che per ordine sovranazionale non guarda in faccia a nessuno e una clausola salvifica inserita nel testamento di una indimenticata benefattrice ragusana dell’Ottocento, che perdette la vita proprio in quel tremendo terremoto. Tale discorso ha a cuore il più antico dei veri e propri ospedali di Ragusa, il “Maria Paternò Arezzo”, per brevità spesso chiamato O.M.P.A. che, appunto nella stridente antitesi tra l’attuale ragion di Stato e il nobile amor patrio di allora, dalla prima potrebbe essere spazzato via nel giro di pochi mesi, mentre dal secondo potrebbe essere salvato ancora per lunghi anni e chiamato a curare tanti malati, come avveniva nei suoi anni gloriosi.

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Maria Concetta Silvia Paternò Arezzo, per parte di madre nipote di Corrado Arezzo de Spuches, Barone di Donnafugata, Senatore del Regno, e figlia di Giuseppe Maria Alvaro Paternò Castello, Principe di Sperlinga e Barone di Manganelli, nata l’11 Dicembre 1869, sposò Francesco Marullo Balsamo, Principe di Castellaci e Conte di Condojanni dimorante in Messina. Pertanto dovette abbandonare giovanissima la sua amata Ragusa Ibla e il nonno a cui era affezionatissima, trasferendosi a Messina dove, non avendo avuto figli, visse fino a quel fatidico giorno del 1908 in cui trovò la morte insieme col marito sotto le macerie del Palazzo Marullo Castellaci.

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Ragusa era rimasta costantemente nei pensieri della nobildonna, che lo storico dell’epoca Sortino Trono aveva definito “bella figura, gentile di modi, buona d’animo”. Segno tangibile ne è il suo testamento, datato 8 Febbraio 1900, di cui mi piace citare la parte in cui Ella fondava l’ospedale:

“Avendo io sempre desiderato di fare qualche cosa in pro dei poveri sventurati diseredati della fortuna, voglio che, avvenuta la mia morte, cominci a fabbricare un ospedaletto per n. 30 infermi, e quando sarà finito gli costituisca una rendita adeguata ……Voglio che detto ospedale porti il mio nome, e che alla mia morte si sappia che io raccomandai di iniziare subito quest’opera di beneficenza, e ciò non per mia vanagloria ma per non essere tacciata di ingrata verso il mio paese”.

E qui la parte essenziale per il mio spunto:

“Nel fondare questo ospedaletto prego imporre che sia affidato alle Suore della Carità, sotto pena di decadenza se qualcuno vuole opporsi a questa mia volontà. Per la rendita da costituire potrà essere assegnato un fondo. Oltre alle condizioni delle Suore mettere pure che se il Governo o la Congregazione di Carità volessero porvi mano, il sopradetto ospedaletto dovrà ritornare al donante”.

Dopo varie controversie e liti testamentarie tra parenti, nel 1914, grazie all’interessamento di quello che nel frattempo era stato nominato suo erede legittimo ed esecutore testamentario – il Barone Corrado Arezzo Giampiccolo, che dalla cittadinanza da quel momento in poi fu riconosciuto con l’appellativo di “Barone terremoto” – su un declivio che guarda la collina su cui sorge Ragusa Ibla fu iniziata la costruzione dell’opera che fu inaugurata nel 1923. Nel 1927 venne istituita la cura dei malati a pagamento e nel 1936 fu introdotta l’illuminazione elettrica. Nel 1954 assorbì il dismesso Ospedale San Giuliano che era gestito dalla Congregazione della Carità (di cui la Principessa di Castellaci faceva menzione nel suo testamento) e che davvero non poteva dirsi altro che un ospedaletto.

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Da allora in poi l’O.M.P.A., negli anni grandemente ampliato con vari padiglioni e innalzato di un piano, ha reso un gran servizio alla popolazione della provincia e di vari comuni della limitrofa provincia di Siracusa. Negli ultimi decenni la sua struttura amministrativa è stata unificata con l’Ospedale Civile (sorto negli anni ’30 del secolo scorso) per dar luogo all’Azienda Ospedaliera “Civile – M. Paternò Arezzo”.

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Nel 2018 è stato inaugurato a Ragusa il grande Ospedale Giovanni Paolo II, una struttura costata 50 milioni di euro e iniziata 13 anni prima, che ha soppiantato l’Ospedale Civile, ma che difficilmente soppianterà il Maria Paternò Arezzo grazie a quella clausola in cui era prescritto dalla sua istitutrice che se il Governo avesse un giorno voluto “porvi mano”, esso avrebbe dovuto restituire al donante l’opera, ovverossia rifondere con ingenti somme i legittimi discendenti.

Ed ecco che ancora oggi, pur con molti dei suoi reparti chiusi e smantellati dalla scure della spending review, il Maria Paternò Arezzo vanta ancora un buon reparto di oculistica e soprattutto un ottimo reparto di oncologia, oltre ad essere stato per alcuni mesi ospedale covid-19.

Con buona pace di governanti e manager e con tanta gratitudine dei Ragusani (tra cui anche il sottoscritto, operato di appendicite acuta a 4 anni e mezzo), l’aura di Maria Paternò Arezzo, Principessa di Castellaci, aleggia ancora nel suo caro “Ospedaletto”.