Storia e ruolo del Cattolicesimo nella caduta del Regime comunista in Ungheria, parte 2 Caduta del Regno e terrore

di Pietro Fontana

3 novembre 1918, Padova. A Villa Giusti il generale Viktor Weber Edler von Webenau firmava l’armistizio di resa dell’Impero di Austria-Ungheria al Regno d’Italia alla fine della Prima guerra mondiale dopo esserne stato incaricato dal Ministro degli esteri dell’Impero, il Conte ungherese Stephan Burián di Rajecz. Resa che era stata peraltro facilitata dalla rotta ed il rifiuto di battersi dei reparti ungheresi (ma anche cechi e polacchi) a seguito del fallimento dell’offensiva austro-ungarica detta del Solstizio, fermatasi sul Piave, e, qualche mese dopo, della battaglia finale di Vittorio Veneto. “I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza” commentava nel bollettino ufficiale della vittoria il generale Diaz, Comandante supremo del Regio esercito italiano. Tra quelli si trovavano quindi anche i sopracitati fanti ungheresi, che poterono dunque tornare dalle loro famiglie in un’Ungheria che presto, però, avrebbero avuto serie difficoltà a riconoscere. La sconfitta avrebbe infatti loro imposto amare sorprese al congresso di pace di Versailles: la Nagy-Magyarország ( la “Grande Ungheria”) conquistata con fatica nel 1867 attraverso il Kiegyezés, più conosciuto col termine tedesco Ausghleich (il “Compromesso” che dava all’impero un carattere bicefalo tra le terre a destra e sinistra del fiume Leita, la Cisleitania austriaca e la Transleitania ungherese considerata legalmente come l’insieme delle “Terre della Corona di Santo Stefano1 con ampi confini che includevano anche altre etnie nonché una discreta autonomia da Vienna e una maggiore ingerenza nella conduzione dell’Impero, il quale era così passato da Austriaco a “Austro-Ungarico”), sarebbe stata persa. Durante tutto il 1918 le diverse nazionalità soggiogate dall’Impero riuscirono a dichiarare la propria indipendenza e così l’Ungheria perse le province di Slovacchia, Croazia, Slavonia e Voivodina, e, con ancora più dispiacere per gli ungheresi, la Transilvania e la Rutenia subcarpatica. La Transleitania si era dissolta. Tuttavia, il “principio delle nazionalità” caro al presidente statunitense Wilson venne applicato non del tutto giustamente nel Trattato di Trianon, in quanto nonostante gran parte dei territori persi non fosse di etnia ungherese, degli oltre 8 milioni di cittadini persi oltre 3 avrebbero formato una cospicua minoranza ungherese lasciata fuori dai confini dello stato, che venivano ridotti dei 2/32 creando i presupposti per un irredentismo che avrebbe sempre alimentato la politica ungherese dei decenni a venire. Si era portata avanti una logica punitiva verso i paesi considerati promotori del conflitto: anche gli Imperi tedesco e ottomano avrebbe infatti pagato un prezzo fatale a Versailles.

Non solo, l’Ungheria avrebbe perso anche il simbolo della sua fede cristiana, l’Imperatore, o meglio, il “Re apostolico” di Ungheria, in quanto il titolo appartenuto a Santo Stefano venne mutuato dagli Asburgo nonché solennemente riconfermato da Papa Clemente XIII nel 1758 per l’Imperatrice Maria Teresa. Nel 1916, all’improvvisa morte di Francesco Giuseppe era succeduto sul trono l’Imperatore Carlo I d’Asburgo-Lorena, che nella Transleitania ungherese divenne Re Carlo IV, solennemente incoronato a Budapest con la Corona di Santo Stefano. 

fuori dalla cattedrale, ai piedi della colonna della Trinità […] il nuovo Re, con la Sacra Corona sul capo, reggendo una Croce nella sinistra e tenendo tese tre dita della mano destra alzata, giurò fedeltà alla Costituzione ungherese; quindi salì in groppa a un cavallo con la bardatura e le staffe d’oro e, seguito dai più importanti nobili ungheresi vestiti del tipico abito da cerimonia magiaro, cavalcò lentamente nel piazzale aperto del Castello verso la collina detta Dell’incoronazione [“Diszer”], costruita con terra estratta dal suolo di tutte le sessantatré contee ungheresi. Il nuovo Re salì da solo, al galoppo, sul rilievo, da dove brandì la spada verso i quattro punti cardinali, esprimendo con un gesto simbolico il suo impegno a difendere il Paese da ogni nemico e a conservarlo intatto3

Tuttavia, è riportato come la troppa ampiezza della Corona gliela facesse continuamente storcere sul capo, dando alla cerimonia il carattere del malaugurio4. Effettivamente il Sovrano, che si era ritrovato in mezzo ad una guerra che egli non avrebbe mai voluto dichiarare, propose tardivamente una soluzione federale alla crisi delle nazionalità che aveva colpito l’Impero, questa non venne accettata e a soli tre anni dall’incoronazione, nel novembre del 1918, l’Assemblea provvisoria austriaca lo forzò a farsi da parte, ponendo fine a 600 anni di dominio asburgico su di sé. Il Sovrano si ritirò quindi al castello di Eckartsau, dove firmò la rinuncia anche per l’Ungheria, rinuncia al potere ma non abdicazione però, in quanto, citando le sue stesse promesse di incoronazione, ciò che gli era stato concesso da Dio neanche lui poteva ritirarlo. Così l’Impero asburgico si dissolse e le tante etnie che circondavano l’Ungheria raggiunsero l’agognata indipendenza (nacquero la Cecoslovacchia, il Regno di Romania e il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni poi detto di Jugoslavia) le quali, riunitesi in funzione anti-ungherese nella così detta Piccola Intesa, ottennero l’allontanamento perpetuo del Sovrano sia dall’Austria, che promulgò l’Habsburgergesetz (legge per l’esilio degli Asburgo), che dall’Ungheria, minacciando ripercussioni in caso di un’eventuale restaurazione. Una situazione complessa ed esasperante, anche perché l’Imperatore Carlo era determinato a non arrendersi e dall’esilio in Svizzera ritirò le rinunce fatte, specialmente al trono ungherese poiché il paese non aveva mai espressamente abolito la Monarchia, al contrario dell’Austria, divenuta Repubblica.

La situazione istituzionale ungherese alla fine della Guerra era difatti quanto mai complessa e non scarna di contraddizioni. Alle dimissioni del Primo ministro Sàndor Wekerle seguì un estremo tentativo di salvare la dinastia nel paese da parte dell’Arciduca Giuseppe d’Asburgo-Lorena, nominato Reggente d’Ungheria dal cugino Carlo IV in esilio. Egli cercò di incaricare alla formazione di un nuovo governo un conte magiaro della vecchia guardia ma il Consiglio nazionale permanente ungherese rifiutò l’incarico, forzando la nomina del Conte Mihàli Kàroli, detto il “Conte rosso” perché di formazione liberale, radicale e progressista in quanto erede politico di Lajos Kossuth, eroe dei moti rivoluzionari del 1848 contro l’assolutismo regio. Anche qui non mancarono ambiguità, difatti Kàroli accettò l’incarico giurando fedeltà alla Corona, in segno di assoluta continuità istituzionale, salvo poi ritirare la parola data il giorno dopo, chiedendo e ottenendo di essere sciolto dal giuramento prestato5. Ciò, unito alla rassegnazione della vecchia guardia, permise a Kàroli di potersi dichiarare Presidente della Repubblica democratica di Ungheria: era la “Rivoluzione dei crisantemi”. Ciò rappresentò per il Paese un trauma e non fece che generare una profonda incertezza nel popolo ungherese. Presto il Conte venne abbandonato dalle potenze vincitrici di Versailles, le quali il 20 marzo 1919 gli inviarono la così detta nota Vyx, che al suo interno confermava nuove mutilazioni territoriali per l’Ungheria. Così Kàroli si rassegnò a farsi da parte, cedendo il potere ad un governo di stampo bolscevico. Ancora oggi non è chiaro se intendesse fare questa operazione nell’estremo tentativo di attirare su di sé l’attenzione dei vincitori oppure se si lasciò sfuggire il potere di mano per mera rassegnazione, fatto sta che nel pomeriggio stesso delle dimissioni il Consiglio degli operai di Budapest dichiarò una Repubblica di tipo consiliare (basata, cioè, sull’originario sistema russo dei Soviet degli operai e dei contadini e sull’autogestione), che sarà ricordata come “Tanácsköztársaság”, ossia “Repubblica dei Consigli”, concentrando il potere nelle mani di Bela Kun, amico personale di Lenin e reduce della Rivoluzione russa, durante la quale combatté al fianco dell’Armata rossa. Tuttavia, il Regime non ebbe vita lunga e dopo circa due mesi e mezzo il paese tornò nel caos, quali le cause? Sicuramente per la sempre maggiore insofferenza popolare nei riguardi dell’importante questione agraria, ora legata ad una socializzazione di stampo sovietico duramente imposta con la forza agli agricoltori nel più ampio contesto del “terrore rosso” per la forzata sopravvivenza del regime.

Nel mentre le opposizioni erano riuscite ad organizzarsi in un governo “legittimo” e “controrivoluzionario”, guidato da Gyula Kàroli (cugino dell’ex presidente), e da figure della vecchia guardia come i Conti Pàl Teleki e Istvàn Bethlen. Questo esecutivo, insediatosi a a Segzed, aprì alla guerra civile e inaugurò una forte campagna contro il regime comunista, facendo peraltro leva sulla grande componente di ministri, o meglio “commissari del popolo”, di fede ebraica, quindi non cattolica come l’assoluta maggioranza della popolazione, ma anzi “deicida”. Anche nella Russia sovietica la maggioranza dei commissari del popolo erano ebrei, senza contare che proprio il fondatore dottrinale del comunismo, Marx, lo era. Ciò non era sfuggito agli occhi dei cattolici quanto di buona parte del clero, tanto che in quel periodo il Nunzio apostolico a Vienna ebbe a scrivere al Segretario di Stato vaticano Cardinal Gasparri insistendo sul rimorso accresciuto “contro l’elemento giudaico che infesta la città di Budapest e che è stato l’autore dell’esperimento bolscevico in Ungheria”6.All’agonia della Repubblica sovietica, dilaniata dalle forze della controrivoluzione si aggiunse infine la fatale morsa rumena. Nel 1918 infatti Re Ferdinando di Romania aveva occupato la Transilvania ungherese e al maggio del 1919 un’importante offensiva rumena era giunta sul fiume Tibisco, minacciando direttamente Budapest. In questo contesto si inserisce un altro paradossale passo della storia ungherese, che si sarebbe poi rivelato una costante nel tempo per i governi di stampo comunista, ovvero la ricerca del consenso popolare per tramite di simboli tradizionali e intrinsecamente cattolici. Inaspettatamente, infatti, Kun si rifiutò di dare il suo regime per spacciato e il giorno dopo la fastosa (fin troppo, per le possibilità del regime) celebrazione del 1° maggio, fece un accorato appello al popolo ungherese per invitarlo a resistere, ad ogni costo, nella difesa “patriottica” di Budapest e del resto del paese minacciato dalle mutilazioni territoriali. Un momento piuttosto atipico che può essere rapportato all’ironica raffigurazione che fece, in anni di non così minore disorientamento (il 1948), lo scrittore italiano Giovannino Guareschi nel suo “Don Camillo” quando romanzò satiricamente il sindaco comunista di una cittadina cattolica e rurale italiana, Peppone, mentre si fa sottrarre il discorso alla folla dall’ “irresistibile” Canzone del Piave fatta risuonare dal parroco reazionario della città, Don Camillo, che evoca nel bolscevico sentimenti contrastanti tanto da fargli esclamare “Viva la Repubblica” e “Viva il Re” nella stessa frase. Allo stesso modo il leader comunista Bela Kun si appellò al popolo ungherese appropriandosi di un valore peculiarmente nazionalista che, come convinto internazionalista, certo non era nelle sue reali convinzioni, ma che, sicuramente, era forte tra gli animi della popolazione, la quale difatti resistette eroicamente all’assedio rumeno. Si registrò un aumento di oltre 120.000 combattenti in un solo mese (aggiuntisi agli iniziali 80.000), i quali riuscirono non solo a resistere, ma anche a riconquistare diverse città e penetrare in Slovacchia. Tuttavia, in agosto l’ “Armata rossa ungherese” subì cocenti perdite che portarono alla sconfitta finale e alla dipartita di Bela Kun, che optò per l’esilio. Dietro le truppe rumene, che diedero inizio ad un’occupazione militare non meno violenta del Regime, la quale verrà poi ricordata come “terrore bianco”, si trovavano le truppe della “controrivoluzione ungherese, che poté così appropriarsi, forse “riappropriarsi”, dell’Ungheria.


1Péter László, “The Holy Crown of Hungary, Visible and Invisible”, Op. cit., p. 458

2Henry Bogdan, “Storia dei paesi dell’est”, SEI, Torino, 2002. p.226

3Oscar Sanguinetti e Musajo Somma, “Un cuore per la nuova Europa, appunti per una biografia del beato Carlo d’Asburgo”, Edizioni D’Ettoris, Crotone, 2004. pp. 172-173

4Péter László, “The Holy Crown of Hungary, Visible and Invisible”, Op. cit., pp. 437-438

5Pasquale Fornaro, “Ungheria”, Edizioni Unicopli, 2006. p. 29

6Philippe Chenaux, “L’ultima eresia, la Chiesa cattolica e il comunismo in Europa da Lenin a Giovanni Paolo II”. Carocci editore, 2011. p. 23