Ode al 18 marzo

Ode al 18 marzo

di Lorenzo Zanella



Da solo spirasti, dinanzi
a chi compassione ti fece.
“Italia” dicesti poc’anzi
a chi sussurrava una prece.




Lontan dal paese, che gioia
ti diede e ti dimenticò.
Il re galantuomo di Casa Savoia
l’Italia tristemente lasciò.




In chiesa, sull’Alpe, tra regie
famiglie dagli occhi avvilenti,
ti porgean le scuse più egregie
un’assemblea di costituenti




per averti senza colpa cacciato;
e chi ti stava vicino è morto:
a Napoli, a Roma han trucidato
chi non voleva il tuo Regno corto.




Regnasti un biennio infelice
la guerra, l’Italia salvata
da chi la speranza disfece,
e la triste fine era annunciata




per te, O innocente sovrano
tu che pativi l’infausto destino
sull’umil sedile di un aeroplano
piangevi, come un bambino.




E l’Italia commossa,
piangeva il suo povero Re!
Ma la memoria è rimossa,
nessuno sa come o perché.




Più nulla è rimasto!
“Italia” imploravi... “Italia”
in quel giorno nefasto,
quando sboccia la prima dalia,




la primavera rinasce, tu muori;
al suono d’un umil canzone
piangevi... per quali dolori?
Una triste, funesta disposizione.



E il vuoto s’intensa, il ricordo cade,
s’appannan le azioni benevole,
tutto scompare tra le tacite strade
del destino; che ricordo fievole.



E fievole è l’ottuso pensiero
che trascura la veridicità;
fievole è l’essere austero
e dir la menzogna con ingenuità,



un’ingenuità che pravi concetti
effonde tra le genti comuni,
finché udiremo i difetti
di discorsi inopportuni.



La verità! Gran dono sì illustre!
Si eclissa; nessuno l’ascolta;
Insorge, la cognizion multilustre
della certezza or giace sepolta.



Eppure ti ascoltano ancora
persone dall’arguta attenzione;
la storia essi studian tuttora
perché la memoria è buona azione.



Ma nel triste mondo d’oggidì,
nessuno ama leggere, capire
il passato, né ricordare, bensì
rifiutare lo sforzo e non agire.



La verità! Triste ricordo lontano
da tutte le menti gagliarde e vivaci,
ora è falciata come spighe di grano,
ora è arsa come sul fuoco le braci.



Vile e infausta umanità;
che nacque tra la beltà del creato,
fu sopraffatta dalla cruda viltà
per aver la retta via rinnegato,



chiamando a sé i crudeli spiriti;
la dolce memoria svanì,
e tutto perì tra i bagliori pirici;
chi ben sperava allora morì.



E tu non sei qui, o povero Re.
Non tra i tuoi nonni e il tuo avo,
nel tempio della città eterna, finché
tuo padre non sarà detto men pravo.



Non sei qui, venerato da chi
diritti fruttuosi tu desti,
il primo febbraio, un giovedì;
ancora i divari restan funesti.



Sei solo lassù, con la tua sposa
con il tuo successore,
e con l’espressione pietosa
sognate l’Italia del cuore.



O Italia, culla della beltà,
patria di Dante, figlia di Roma,
tu che affascini chiunque vedrà
la gente che scherza e che suona



O Italia, che generi l’arte,
sublime invidia dell’umanità,
ogni opera è una tua parte,
la tua cultura mai finirà.



O Italia, che dividi la gente,
chi non ha gaudio si è dipartito,
perché più non conta, come il niente,
e di chi governa ora è impaurito.



Magnanimo eri, volevi
gli animi lieti e felici,
le libertà altrui sostenevi:
speravi un’Italia di benefici.



Speravi nella concordia
tra tutti uniti nel bene,
ma giunse ahimé la discordia
a suon di stragi e amare pene.



Da lontano il piombo patisti
degli anni dei giovani in armi;
uccisero tutti, pure i giuristi,
e tutti invocaron speranza coi carmi.



O Italia! Culla delle divisioni,
odi il richiamo di quei poveretti?
tu non li vuoi, li abbandoni,

or più non sono, sono reietti,


abbandonati! O Lupa feconda,
generatrice della stirpe italica,
il tuo paese è morto, sprofonda:
frutto di una gestione vandalica.



O Italia! creatrice di genti perverse,
volte a scordare, a dimenticare
l’essenza di menti diverse
pronte a far tutto, pronte ad amare.



E non ci fu tempo, o povero Re,
per il tuo animo amareggiato
sentire il tuo suolo, benché
avesti in ogni modo tentato,



col Papa, con il Presidente
“fate qualcosa, vi prego, pietà!”
furon parole espresse per niente,
nessuna preghiera si avvererà,



in Svizzera, in un pomeriggio,
la morte ti colse sul letto malato
un’infermiera ti rese l’omaggio,
al tuo animo in cielo volato.



Riposa tra immensi cieli stellati,
riposa nell’umile tomba pietrosa
da solo; insieme ad angeli alati,
sotto lo sguardo d’un fiore di rosa.



Riposa, o sovrano di maggio;
mentre l’oblio veloce si espande
e il tuo ricordo è solo un miraggio:
di te più nessuno si fece domande.



Riposa in chiesa, sull’Alpe innevata
sotto il celeste lume divino,
al suon d’una dolce sonata,
nell’incanto d’un dolce mattino.