Il “delirio” come espressione socialmente compatibile
di Aldea De Maria
Le
opinioni sono dei punti di osservazione dai quali godere di una
visuale più ampia o ristretta delle cose.
Di
certo il dover fare appello alla ragionevolezza, alla propria
esperienza e capacità di autocontrollo è d’obbligo, quando ci si
approccia alla conoscenza, alla speculazione, alla complessità del
sapere umano, riferendosi esclusivamente ai mezzi mediatici, in una
mescolanza improbabile di informazioni, messe insieme talvolta con
forzati ed arditi sillogismi. Sovente il giungere ad una deduzione è
il frutto amaro di una pianta ben radicata in ognuno di noi, la
paura.
Tale emozione è costantemente
presente nel lavoro di psicoterapeuta. E’ il motore sottostante
molte evidenze sintomatologiche nonché, unita al senso di colpa, ciò
che muove il comportamento umano, eccettuato l’amore, pur con le
dovute cautele semantiche. La paura deve trovare una strada, una
direzione, partorire una soluzione chiarificatrice che la sazi e la
plachi. Tale espressione rende piuttosto comune la necessità di
schierarsi, di collocarsi sempre in un estremo dialettico col mondo
ed anche con noi stessi, creando per tale assetto un evidente
sbilanciamento.
Tale processo è in
nuce straordinariamente coincidente a mio avviso con l’emersione
del processo psicotico, rispetto al quale trovo vere analogie. Ciò
che viene descritto nei manuali più accorti di psichiatria è un
fenomeno chiaro ed oserei dire affascinante se non fosse intriso di
reale dolore psichico.
La mente
comincia il suo lento slabbrarsi ed emana sensazioni definibili in
“presagi”. La sensazione della realtà viene alterata, il cielo
si fa plumbeo, i colori appaiono sfumatamente metallici, si ha la
netta certezza che qualcosa stia accadendo ma non si sa definire che
cosa sia ed in che modo si manifesti. Tutto perde di familiarità
apparendo sinistro. Si instaura dentro di noi ciò che viene definito
come “clima da venerdì Santo” ed è in tale clima psichico che
si staglia con chiarezza nel nostro orizzonte la necessità di una
risposta, rapida ed urgente, che dia una spiegazione al tutto.
Quale
spiegazione appare più credibile e chiara se non un qualcosa di
inconfutabile? Di difficile da negare o spiegare? Da qui la nascita
del delirio, del pensiero delirante a tema persecutorio, di nocumento
o di veneficio come condizione tossica evocata dalla presenza
dell’Altro, della tecnologia, della scienza, di tutto ciò che ci è
estraneo. Sovente si rivela mistico, diabolico nell’accezione
etimologica, legato insomma ad un qualcosa che rappresenta un limite
conoscitivo ed invalicabile per tutti.
Tale
rivelazione poi va immediatamente diffusa come verbo salvifico, unico
tragico avvertimento da dare per salvare il mondo e persuaderlo,
nell’amara certezza di non essere capiti o creduti e rafforzando
così la verosimiglianza delle proprie intuizioni rispetto a chi ci
vuol nuocere a nostra insaputa, all’insaputa dell’umanità
intera, che pare avvolta da un torpore inconsapevole, miope ed
irresponsabile.
Trovo molte
similitudini con l’innesco del processo psicotico in tali
manifestazioni, poiché il “delirio mediatico” è estremo,
definitivo, impossibile da confutare, come uno slogan. L’intuizione
così composta ed espressa poi in una opinione, è cardine di un
ordine verosimile e tracciabile, come nell’unire i punti che su una
mappa parevano accidentali sinonimi nella toponomastica interiore,
che assegna nomi e significati come vuole, a chi vuole ed a ciò che
vuole percepire, poiché il risultato è chiaro e cristallino come la
più ovvia delle equazioni.